Dall’emendamento correttivo del Governo all’assestamento di bilancio necessario alla copertura del DL Aiuti-bis, approvato dalla Camera lo scorso martedì, emerge che la tassa sugli extra-profitti delle imprese energetiche ha prodotto al momento un gettito ben al di sotto delle aspettative.
La cosiddetta tassa sugli extra-profitti è stata introdotta con il DL 21/2022 e colpisce, a titolo di prelievo solidaristico straordinario, le imprese che esercitano l’attività di: produzione di energia elettrica e gas metano; estrazione di gas naturale; rivendita di energia elettrica, gas metano e gas naturale; produzione, distribuzione e commercio di prodotti petroliferi; importazione a titolo definitivo, per successiva rivendita, di energia elettrica, gas naturale o gas metano, prodotti petroliferi. La base imponibile del contributo straordinario è identificata con l’incremento del saldo tra le operazioni attive e le operazioni passive, riferito al periodo dal 1° ottobre 2021 al 30 aprile 2022, rispetto al saldo registrato nel periodo dal 1° ottobre 2020 al 30 aprile 2021. A questa si applica un’aliquota del 10%.
Secondo l’articolo di Gianni Trovati e Marco Mobili pubblicato il 2 agosto su il Sole 24 Ore, dalla relazione tecnica di accompagnamento all’emendamento risulterebbe che dal versamento del primo acconto di imposta (pari al 40%), da effettuare entro il 30 giugno, lo Stato avrebbe incassato circa 1,23 miliardi di euro. Ossia ben 9,2 miliardi in meno dei 10,5 miliardi di euro attesi dal Governo.
Almeno tre le cause che, contestualmente, potrebbero spiegare l’attuale ammanco: errate stime da parte dell’Esecutivo rispetto al gettito atteso; la difficoltà delle imprese nel corrispondere gli importi richiesti in un momento di ulteriore impennata dei prezzi dell’energia che, per talune di queste, rappresentano delle significative voci di costo; il mancato versamento del primo acconto da parte di quelle imprese convinte che i ricorsi presentati al TAR contro la misura ne determineranno l’abolizione.
Sin da subito, infatti, l’imposta è stata oggetto di dubbi circa la sua legittimità. Oltre che circa la sua equità.
Su questi aspetti vale la pena citare l’utile contributo di Dario Stevanato, Professore Ordinario di Diritto Tributario presso l’Università di Trieste, per l’Istituto Bruno Leoni. Tra le criticità sollevate dall’esperto dell’Ateneo di Trieste possono essere ricordate le seguenti:
- la misura avrebbe carattere retroattivo e violerebbe così il principio di irretroattività sancito dall’art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente. La tassa sugli extra-profitti fa infatti riferimento a una base imponibile riferita prevalentemente a un periodo passato (la differenza tra il saldo del valore aggiunto IVA conseguito nei mesi 1° ottobre 2021-31 marzo 2022, rispetto a quello conseguito nel periodo 1° ottobre 2020-31 marzo 2021);
- contrariamente agli intenti del legislatore, il contributo straordinario non considererebbe quale base imponibile il reddito o l’utile d’impresa. La misura rappresenta un prelievo sull’eccedenza di “valore aggiunto” conseguito ai fini IVA. L’imposta è stata quindi costruita in modo incoerente rispetto alla motivazione che ha portato alla sua adozione. Ossia andare a colpire presunti incrementi di profitto o reddito rispetto a un livello ritenuto “giusto” e, quindi, “fisiologico”. Peraltro il DL 21/2022 non chiarisce secondo quali criteri oggettivi e misurabili si possa considerare un profitto “giusto” o “fisiologico”. Secondo Stevanato, quindi, questo particolare aspetto renderebbe la disposizione passibile di essere dichiarata incostituzionale per violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione. L’incremento nel valore aggiunto è, infatti, una grandezza approssimativa per dedurre il conseguimento di extra-profitti. Essa può infatti dipendere da diversi fattori, quali un incremento del volume di attività dell’impresa, a parità di margini unitari; dall’effettuazione di operazioni di aggregazione o disaggregazione (fusioni, conferimenti, scissioni);
- l’identificazione dei soggetti cui si applica l’imposta è altrettanto critica. Il DL 21/2022 non distingue all’interno della catena del valore energetica e equipara, per esempio, produttori e commercianti di prodotti petroliferi. Quando, diversamente, per gli impianti di distribuzione l’aumento del costo delle commodity è solo una voce di costo.
A tali criticità occorre aggiungere ulteriori tre eventi che, se non direttamente rilevanti in punta di diritto per eventuali ricorsi in sede giudiziaria, sono emblematici rispetto alla capacità del Paese di attrarre investimenti attraverso un quadro normativo certo e stabile.
In poco meno di due mesi dal decreto che ha istituito la tassa sugli extra-profitti, il DL 50/2022 ha innalzato l’aliquota di imposta dal 10% al 25%.
In aggiunta, a giugno, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) ha trasmesso a Governo e Parlamento un rapporto con i risultati dell’analisi circa la coerenza tra costi di importazione, prezzi all’ingrosso e costi di approvvigionamento di gas naturale utilizzati per la determinazione dei prezzi regolati ai clienti domestici di gas naturale. Attraverso le analisi svolte, ARERA ha accertato la non sussistenza di extra-profitti in capo alle imprese importatrici e rivenditrici di gas naturale e che i prezzi da queste praticate sono coerenti con i costi di importazione sostenuti.
All’incertezza del quadro normativo, insomma, si è aggiunta la contraddittorietà rispetto all’evidenza empirica. Il mancato gettito dal primo acconto dell’imposta non fa che peggiorare il quadro restituendo una percezione di poca credibilità della misura, e della sua effettiva attuazione, da parte degli operatori. Tutti ingredienti che, certo, non giovano alla pressante esigenza di nuovi investimenti per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione e, ancora prima, promuovere l’indipendenza dal gas russo.