Nota a Corte Costituzionale sentenza dell’8 luglio 2022 n. 171
Chiamata a deliberare su una questione di costituzionalità in ordine al trattamento normativo delle farmacie, rispetto alle parafarmacie, la Consulta offre una serie di indicazioni differenziali, particolarmente utili. Nel caso di specie, il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 418 e 419, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023), per violazione degli artt. 3 e 41 della Costituzione.
Le disposizioni censurate – nella parte in cui consentono alle sole farmacie, e non anche alle cosiddette parafarmacie, l’effettuazione dei «test mirati a rilevare la presenza di anticorpi IgG e IgM e dei tamponi antigenici rapidi per la rilevazione di antigene SARS-CoV-2» – determinerebbero, secondo il remittente, un’irragionevole disparità di trattamento tra farmacie e parafarmacie, limitando inoltre, senza un giustificato motivo, la libertà di iniziativa economica delle seconde, che non potrebbero svolgere un’attività che invece le prime, operanti nello stesso mercato di riferimento, sono abilitate a svolgere.
Il parametro evocato è, quindi, quello della uguaglianza ex art. 3 Cost. in base a cui è razionale aspettarsi che il legislatore, nella sua discrezionale potestà normativa, regoli in modo omogeneo situazioni uguali.
Di qui la puntualizzazione della Corte che, in generale, “si è in presenza di una violazione dell’art. 3 Cost. qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili nel qual caso è insindacabile la discrezionalità del legislatore sempre entro il limite generale dei principi di proporzionalità e ragionevolezza”.
In altri termini, se i parametri delle situazioni da regolare rimandano ad entità diverse, si riespande la discrezionalità legislativa, fermi i generalissimi “paletti” della razionale proporzionalità.
Diviene allora necessario, nella presente controversia, stabilire se la differente regolamentazione delle due realtà poste a raffronto si raccordi a realtà identiche (o meno).
Nel respingere la questione, la Corte svolge appunto una esaustiva disamina della disciplina delle farmacie e delle parafarmacie, addivenendo alla collusione che sussiste una “ontologica” diversità che esclude la necessaria uguaglianza di trattamento.
Il quadro normativo (precisa la Consulta) impedisce di affermare che si sia dinanzi alla «esistenza di una identità di situazioni giuridiche, rispetto alle quali la disciplina impugnata determini una disparità di trattamento normativo rilevante agli effetti dell’art. 3 della Costituzione»: l’esistenza di elementi comuni a farmacie e parafarmacie – e, nel caso di specie, la presenza di farmacisti abilitati presso entrambe – non è tale da mettere in dubbio «che fra i due esercizi permangano una serie di significative differenze, tali da rendere la scelta del legislatore non censurabile in termini di ragionevolezza» e di violazione del principio di uguaglianza.
Segue il punto che si intende valorizzare.
Le cosiddette parafarmacie – prosegue la Corte – sono esercizi commerciali, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lettere d), e) e f), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), che, secondo quanto disposto dall’art. 5 del d.l. n. 223 del 2006, come convertito, «possono effettuare attività di vendita al pubblico dei farmaci da banco o di automedicazione […] e di tutti i farmaci o prodotti non soggetti a prescrizione medica, previa comunicazione al Ministero della salute e alla regione in cui ha sede l’esercizio» (comma 1), e sempre che la vendita sia «effettuata nell’ambito di un apposito reparto, alla presenza e con l’assistenza personale e diretta al cliente di uno o più farmacisti abilitati all’esercizio della professione ed iscritti al relativo ordine» (comma 2).
Le farmacie, invece, – e qui si radica il punto differenziale – erogano l’assistenza farmaceutica (art. 28 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, recante «Istituzione del servizio sanitario nazionale»), oggi ricompresa tra i livelli essenziali di assistenza ai sensi del D.P.C.M. 12 gennaio 2017 (Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502), e svolgono, dunque, un «servizio di pubblico interesse»; analogamente, preordinato al fine di «garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute, restando solo marginale, sotto questo profilo, sia il carattere professionale sia l’indubbia natura commerciale dell’attività del farmacista».
I farmacisti titolari di farmacia, pertanto, sotto il profilo funzionale sono concessionari di un pubblico servizio.
Le farmacie, dunque, rientrano nell’ambito del servizio sanitario nazionale (SSN), di cui fanno parte (artt. 25 e 28 della legge n. 833 del 1978), e sono dislocate sul territorio secondo il sistema di pianificazione di cui alla legge 2 aprile 1968, n. 475 (Norme concernenti il servizio farmaceutico), il quale, dettando la specifica proporzione di una farmacia ogni 3300 abitanti (art. 1, comma secondo), è volto ad «assicurare l’ordinata copertura di tutto il territorio nazionale al fine di agevolare la maggiore tutela della salute dei cittadini».
Come del resto sottolinea la stessa Consulta, è ancor più significativo che il legislatore delegato, con il decreto legislativo 3 ottobre 2009, n. 153 (Individuazione di nuovi servizi erogati dalle farmacie nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, nonché disposizioni in materia di indennità di residenza per i titolari di farmacie rurali, a norma dell’articolo 11 della legge 18 giugno 2009, n. 69), abbia previsto, in aggiunta all’assistenza farmaceutica, «nuovi servizi a forte valenza socio-sanitaria erogati dalle farmacie pubbliche e private nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale», come indicati nella legge di delegazione (art. 11, comma 1, della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante «Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile»); e, tra questi, la partecipazione «al servizio di assistenza domiciliare integrata a favore dei pazienti residenti o domiciliati nel territorio della sede di pertinenza di ciascuna farmacia, a supporto delle attività del medico di medicina generale o del pediatra di libera scelta» (art. 1, comma 2, lettera a, del d.lgs. n. 153 del 2009), nonché l’effettuazione «di prestazioni analitiche di prima istanza rientranti nell’ambito dell’autocontrollo» (art. 1, comma 2, lettera e, del d.lgs. n. 153 del 2009).
In tal modo – conclude la Corte in argomento – «l’attività svolta dalle farmacie non è più ristretta alla distribuzione di farmaci o di prodotti sanitari, ma si estende alla prestazione di servizi», la cui determinazione avviene nell’ambito dei princìpi fondamentali, stabiliti dal legislatore statale, in materia di «tutela della salute», perché «finalizzati a garantire che sia mantenuto un elevato e uniforme livello di qualità dei relativi servizi in tutto il territorio».
La differenza è dunque palese ed esclude qualsivoglia pertinente richiamo al baluardo democratico, costituito dall’art. 3 della Carta fondamentale.
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