Siamo arrivati alla conclusione del ciclo di Talk FOR Energy a tema nucleare, con il terzo e ultimo appuntamento del 23 novembre dal titolo “Gli sviluppi della medicina nucleare”. Al talk hanno partecipato Maria Letizia Terranova, Pietro Agostini e Carlo Miglietta, con la moderazione di Umberto Minopoli (è possibile rivederlo qui integralmente, mentre basta cliccare qui e qui per leggere gli articoli dei talk precedenti).
Umberto Minopoli, Presidente di Associazione Italiana Nucleare, ha introdotto il talk sottolineando come la medicina nucleare sia ampiamente conosciuta, ma meno conosciute sono le macchine di cui ha bisogno per funzionare.
«La radioattività è la proprietà di alcuni elementi di cedere energia, che viene utilizzata in termini diagnostici e sempre più spesso anche in termini terapeutici», ha spiegato Monopoli. Gli elementi, necessariamente stabili, dunque con tempi di decadimento definiti e brevi per quanto possibile, sono in parte reperibili in natura, in parte prodotti artificialmente da macchine complesse.
Lo scopo delle macchine principalmente è quello di generare isotopi medicali, la cui domanda è in crescita anche a causa delle malattie contrastabili con la medicina nucleare. Il problema più grave della medicina nucleare è proprio la scarsa disponibilità degli isotopi nucleari, nonostante l’avanzamento tecnologico.
La paura della radioattività
«Complessivamente tutti quanti viviamo in un ambiente abbastanza radioattivo», ha evidenziato Maria Letizia Terranova, docente di Chimica all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Siti terrestri, corpo umano, prodotti di consumo (gioielli, impianti odontoiatrici), sono tutti luoghi in cui è possibile ritrovare isotopi radioattivi: «la radioattività è non soltanto intorno a noi, ma anche dentro di noi». A seguito dell’incidente di Chernobyl si è sviluppata invece una diffusa radiofobia, che ha portato a cancellare il concetto di radioattività, compresa quella naturale, e benefica, delle fonti termali. Anche per alcune tecniche diagnostiche, come la PET e la TAC, c’è grande diffidenza persino dalla classe medica.
Dagli studi recenti emerge che, in caso di bassa esposizione alle radiazioni, c’è un sistema di protezione adattivo, che ripara il danno. «Le radiazioni ionizzanti a dosi al di sotto della certa soglia non soltanto non sono pericolose», ha notato Terranova, «ma hanno effetti benefici sul sistema biologico, perché migliora una risposta adattativa delle cellule».
Sono stati fatti anche studi statistici sull’allungamento della vita media delle persone in zone in cui si riconosceva la mappatura della radioattività ambientale.
«Un atteggiamento meno radiofobico ci porterebbe poi ad una transizione energetica più realistica verso l’energia nucleare; perciò, non ci resta che attendere con ottimismo e che la razionalità prevalga sugli atteggiamenti antiscientifici», ha concluso la docente.
Come ottenere il molibdeno-99?
Il tecnezio 99 è un radionuclide molto usato negli usi diagnostici perché è molto adatto alla produzione, alla distribuzione e alla diffusione negli ospedali, ha spiegato Pietro Agostini, responsabile della divisione ingegneria del Dipartimento di fusione e sicurezza nucleare all’ENEA. Il problema del tecnezio-99 è che ha come precursore il molibdeno-99, prodotto tramite fissione dell’uranio arricchito. I punti deboli principali del molibdeno-99 sono che i reattori che lo producono sono molto vecchi e, inoltre, «siccome i target da cui si produce il molibdeno-99 sono tipicamente quelli di uranio ad alto arricchimento, cioè di grado nucleare, c’è una spinta, anche comprensibile, a far sì che la produzione avvenga con uranio a basso arricchimento», dando però una resa peggiore, ha evidenziato Agostini.
La proposta dell’ENEA è irraggiare molibdeno 100, presente al 10% nel molibdeno naturale, con una reazione n=2n, reazione che si ottiene solo con neutroni molto veloci come sono quelli a 14 MeV della fusione: «in questo modo si può ottenere il molibdeno-99 in una maniera completamente differente e senza bisogno del reattore a fissione nucleare».
La curva della domanda del molibdeno è sempre in crescita, mentre la capacità produttiva ha avuto un crollo nel 2017, senza più tornare alla produttività del 2016 a livello mondiale, a causa della mancanza di un reattore. ENEA vuole verificare la fattibilità tecnologica e anche la competitività commerciale industriale di questa strada alternativa per produrre il molibdeno-99, nonché altri isotopi.
Nel 2018 è stato fatto un esperimento che ha coinvolto due diversi laboratori nell’ENEA, dove «abbiamo dimostrato la praticabilità sia della fisica sia della radiochimica». Non è stato tuttavia possibile mettere appunto né l’ingegneria di processo né effettuare una corretta analisi dei costi benefici, che è la base per uno sfruttamento commerciale. L’Emilia-Romagna ha finanziato la costruzione di un prototipo, che funziona con riscaldamento elettrico e che serve per i test termoidraulici e termo meccanici.
I radioisotopi, fra ciclotroni e StormReactor
Carlo Miglietta, Medical Device Expert, Founder Ground Control Holding, ha focalizzato il proprio intervento sulle possibili alternative nella produzione di radioisotopi, «uno degli aspetti chiave per lo sviluppo sia della diagnostica che della terapia con questo tipo di elementi». Fra questi isotopi si rilevano il fluoro-18, fra i più utilizzati, e il tecnezio-99, in forte crescita.
«Non facciamo altro che legare allo zucchero, per esempio, il nostro radioisotopo, che viene trascinato all’interno del nostro organismo per essere poi letto dalla PET nel momento in cui emette, in un periodo stabilito»: l’elaborazione delle informazioni avviene necessariamente in tempi stretti. Ci sono dei radioisotopi specifici per determinate terapie o per determinate diagnosi. Il fluoro-18 viene prodotto all’interno dei ciclotroni, macchine complesse che richiedono un insieme di ambienti ben definiti e che non sono immediatamente disponibili, anche per il loro costo. «Dobbiamo trovarci relativamente vicini al produttore del radioisotopo, perché il radioisotopo ha una vita in questo caso sostanzialmente limitata», ha rilevato Miglietta.
Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, in Europa sono presenti ottimi servizi sanitari, e l’Italia è dotata di un numero importante di ciclotroni. Tuttavia, i ciclotroni, rispetto alle macchine PET distribuite in modo omogeneo sul territorio, sono in numero molto ridotto: la difficoltà sta nella distanza, che richiede costi di trasporto non indifferenti e tempistiche elevate.
Gli esperimenti condotti nel corso del 2018 a Valencia hanno portato allo StormReactor, un dispositivo leggero, che acquisisce energia dalla rete e non usa metalli pesanti. Di fatto non è altro che la generazione di un piccolo campo magnetico, ma di una fortissima scarica elettrica su una piccola quantità di acqua. Si tratta di un’alternativa che può avere un enorme impatto dal punto di vista tecnologico e dal punto di vista sanitario, risolvendo la scarsa disponibilità di ciclotroni ed eliminando il grave problema della diagnosi ritardata.
«Non dobbiamo chiudere gli occhi davanti a quelle che sono le possibilità tecnologiche che ci riserva la conoscenza», ha detto Carlo Miglietta in conclusione, «per il semplice motivo che rischiamo di fare dei danni dovuti a inutile cecità nei confronti o chiusura nei confronti della tecnologia, della conoscenza e delle sue ricadute».