lunedì, 25 Settembre 2023

Taiwan, Cina, USA e Nancy Pelosi

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Manuela Scognamiglio
Napoletana doc, vive a Milano e lavora nell'advertising. È appassionata di lingue e comunicazione. Apprezza le sfide, il coinvolgimento internazionale e la conoscenza, così come il confronto con le persone. Crede nella condivisione delle esperienze, nella creazione di opportunità e nel cambiamento.

La globalizzazione, tra le altre cose, conferisce a ciascun Paese del mondo, ai suoi rappresentanti, una grande responsabilità. Ai capi di Stato, i leader politici, è richiesta grande cura nella scelta delle parole; in altre parole, occorre riflettere e confrontarsi prima di parlare o di agire, dal momento che una dichiarazione può rappresentare un rischio di conflitto.

Ci sono Paesi che, inutile negarlo, pesano più di altri; gli Stati Uniti sono in pole position. Eppure, alcune decisioni prese sono apparse frettolose oppure “leggere”: prima un disastroso ritiro dall’Afghanistan, quindi la gestione superficiale della crisi russo-ucraina, sfociata in un conflitto nel cuore dell’Europa, infine, la provocazione nei confronti di Pechino.

Il passo falso di Nancy Pelosi

Il primo agosto, la Presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti Nancy Pelosi è atterrata a Taiwan per incontrare la presidente taiwanese Tsai Ing-wen, la quale l’ha insignita dell’Ordine delle Nuvole Propizie con Gran Cordone Speciale, considerata la più alta onorificenza di Taiwan, per coloro che hanno dato un contributo all’isola.

Durante la cerimonia presso l’ufficio presidenziale, Pelosi ha accettato il premio a nome del Congresso e ha dichiarato che la solidarietà degli Stati Uniti con Taiwan è “cruciale”. In questo momento c’è “una lotta tra autocrazia e democrazia”, ha detto Pelosi in una successiva conferenza stampa, aggiungendo che uno degli scopi del viaggio è “mostrare al mondo il successo del popolo di Taiwan, il coraggio di cambiare il proprio Paese, di diventare più democratico”.

La Pelosi è il più alto legislatore statunitense a visitare Taiwan da quando l’allora presidente della Camera Newt Gingrich vi si recò 25 anni fa. Da allora i tempi sono certamente cambiati e una visita del genere non può che essere letta come una sfida nei confronti di Pechino, anche per ciò che la Pelosi rappresenta, avendo da sempre sostenuto una linea dura nella competizione Washington-Pechino.

Pechino, dal canto suo, ha annunciato subito dopo esercitazioni militari al largo di Taiwan, dal 4 al 7 agosto. Il ministero della Difesa di Taipei ha risposto dicendo che “invierà forze appropriate in relazione alle minacce”.

Anche il Partito Comunista Cinese si è espresso riguardo all’accaduto, dichiarando che la mossa avrà “conseguenze serie. Viola gravemente l’integrità e la sovranità territoriale della Cina, viola gravemente il principio di una sola Cina e i tre comunicati congiunti Cina-Usa, intralcia seriamente il diritto internazionale e le norme basilari che governano le relazioni internazionali, rompe il serio impegno politico che gli Stati Uniti hanno preso nei confronti della Cina e manda un segnale gravemente sbagliato alle forze che cercano l’indipendenza di Taiwan. Ci opponiamo fermamente a questa mossa ed esprimiamo la nostra forte condanna e protesta. C’è una sola Cina nel mondo e Taiwan ne fa parte”.  

Una Superpotenza in disarmo

È già da qualche anno che i rapporti tra Stati Uniti e Cina si stanno deteriorando, con Hillary al Dipartimento di Stato, prima, e con Trump alla Casa Bianca, poi. Di fatto, nelle ultime due decadi, si è passati da una collaborazione a due ad una competizione sempre più intensa, tanto da far parlare di G2. Ma questo G2 sembra essere caratterizzato, da un lato, da una superpotenza in ritirata, gli Stati Uniti, senza idee né strategie, se non l’esaltazione della dimensione nazionale (America First). Dall’altro, la Cina, la seconda potenza economica mondiale, che investe sempre più in reputazione e rapporti internazionali, tessuti attraverso una presenza proattiva nei fori multilaterali e un potere di iniziativa senza precedenti, dagli investimenti in Africa e nei Balcani, ai faraonici progetti di sviluppo, come la Silk Road Initiative.

La reazione di Washington sembra schizofrenica: invece di sviluppare una politica di contenimento razionale e ben costruita, i suoi leader si abbandonano a iniziative isolate e provocatorie.

Taiwan protagonista del dibattito

Taiwan, che tradizionalmente si preferiva eliminare dal tavolo, per evitare complicazioni, è diventata invece un argomento di discussione importante. Donald Trump ha rotto il silenzio, chiamando la presidente Tsai Ing-wen quando si è insediato nel 2016. La sua Amministrazione ha continuato a prendere una posizione forte su Taiwan, che Biden ha sostenuto, a conferma che non si trattava di una policy di breve periodo. Da quando è diventato presidente, Biden ha detto in almeno tre occasioni che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti in difesa di Taiwan se l’isola fosse stata attaccata, contraddicendo la politica di ambiguità strategica di lunga data, in base alla quale gli Stati Uniti mantengono sconosciuta la loro potenziale risposta. Tutte e tre le volte, i funzionari dell’amministrazione hanno ribadito che la politica di “ambiguità strategica” è ancora valida, ma le osservazioni di Biden hanno comunque preoccupato Pechino.

La visita di Pelosi è stata forse un azzardo troppo grande; Biden aveva già confermato che, anche secondo il Pentagono, “non sarebbe stata una buona idea in questo momento (right now)”. Ci si chiede perché, oltre a dichiararlo, non abbia vietato alla Speaker della Camera di portare a termine la missione. È pur sempre il Presidente degli Stati Uniti.

Venti di guerra?

Per giudicare la strategia degli Stati Uniti, affidiamoci ad Henry Kissinger, ex Segretario di Stato Usa e consigliere del presidente Richard Nixon, ormai 99enne ma sempre lucido (di sicuro più del suo successore al Dipartimento di Stato), che ha espresso in un’intervista a Bloomberg le sue perplessità su un approccio troppo invasivo statunitense rispetto alla politica dell’avversario cinese.

Secondo lui, Biden deve evitare di sovrapporre la politica domestica del Paese con “l’importanza della comprensione della permanenza della Cina”. In altre parole, “è importante prevenire l’egemonia della Cina o di qualsiasi altro Paese – ha detto – ma non è qualcosa che può essere raggiunto con uno scontro senza fine”. Kissinger ha poi invitato la Casa Bianca a una strategia meno conflittuale verso Pechino, sostenendo che un’escalation di tensioni tra i due giganti rischia di tradursi in una “catastrofe comparabile alla Prima Guerra Mondiale”.

Non so se avete visto la serie americana The Lincoln Lawyer. È incredibile vedere come gli americani già citino Putin e Lavrov come i politici che coprono e ispirano il “cattivo” della serie. La Cina potrebbe fare la stessa fine, ma gli Stati Uniti devono forse riflettere sul fatto che nel terzo millennio, ritirarsi dai propri doveri di superpotenza responsabile della pace non è possibile senza enormi rischi per la comunità internazionale.

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