Il rientro “in ufficio” 2021-22, il secondo dall’inizio della pandemia di Covid-19, promette di essere letterale per gran parte dei lavoratori della Pubblica Amministrazione italiana. Così chiede il Ministro Renato Brunetta, che definisce «anima della ripresa» la ritirata verso le scrivanie, entro la fine di settembre, per l’85% dei dipendenti. Uno scenario che Marco Bentivogli, sindacalista e Segretario Generale FIM CISL, e Mariano Corso, Professore Ordinario di Leadership e Innovazione alla scuola di Management del Politecnico di Milano, giustamente definiscono, su Repubblica, «una retromarcia grave e controproducente». La sensazione è che, ai piani alti, la pandemia, che ha accelerato processi già in essere da diversi anni, non abbia insegnato molto. Il mantra conservatorista sembra essere piuttosto quello di un risveglio collettivo dal lungo incubo, in cui tutti troviamo le nostre cose esattamente come le avevamo lasciate. Eppure, ognuno di noi potrebbe raccontare la storia di un piccolo o grande cambiamento, innescato dall’emergenza, che ha tutta l’aria di voler restare.
Il lavoro ai tempi del Covid
Tutti noi abbiamo visto o vissuto, vuoi nelle comunità scolastiche, nelle università, nella maggior parte delle aziende, la fuga dai luoghi fisici, il precipitoso arrabattarsi a organizzare nelle nostre case quell’infrastruttura (un computer, questo o quel software, una buona connessione Internet) che ci avrebbe permesso, nei mesi di serrande abbassate, di restare attivi. Tutti noi abbiamo prima o poi aiutato quell’amico o quel parente spaesato che, passato in un attimo dalla carta e penna a una tastiera, non sapeva letteralmente dove mettere le mani – e qualcuno di chi mi legge confesserà di aver avuto bisogno di questo genere di aiuto. La mobilitazione per il lavoro a distanza è stata colossale, ha forzato il salto verso la digitalizzazione di molte mansioni, ha dato vita a una nuova cultura del luogo di lavoro, con annesse nuovissime sindromi, come lo stress da videochiamate, e l’emergere di nuovissimi diritti, come quello alla disconnessione.
Ha funzionato? Come osservano Bentivogli e Corso, sarebbe «ingeneroso e infondato» attribuire a quello che loro chiamano smart-working ritardi e disagi verificatisi durante la pandemia. È anche vero che il ricorso forzato al telelavoro non è stato indolore. L’Osservatorio per lo Smart Working del Politecnico di Milano ha messo in luce come il lavoro in Italia agli albori della pandemia, specialmente nella Pubblica Amministrazione, fosse tutto sommato impreparato a questo passaggio: tre PA su quattro hanno incoraggiato i dipendenti a utilizzare dispositivi personali, non potendo fornire infrastrutture aziendali; la metà delle Piccole e Medie Imprese non è riuscita a operare da remoto; un terzo dei manager non era addestrato a gestire il lavoro da remoto.
La tentazione di tornare indietro sarebbe allora forte, se non fosse per altri aspetti che fanno parlare l’Osservatorio di “svolta irreversibile”. Più della metà delle PA avrebbero assistito a un miglioramento delle competenze digitali, e nel 42% dei casi si è parlato di ripensamento dei processi aziendali. Come al solito, insomma, le cose sono più complicate di come le vorrebbe chi deve prendere delle decisioni. Se da un lato il matrimonio tra PA e smart working è stato forzato, esso ha messo in luce alcuni elementi chiave del lavoro del futuro: le buone pratiche, come le cattive.
Smart working o telelavoro?
Non sono in tanti a sapere che di smart working, o lavoro agile, si parla in Italia già da tempo: dal 2017, per l’esattezza, quando la Legge 81 di quell’anno ne definiva per la prima volta i tratti costitutivi. Ennesimo figlio della rivoluzione digitale, il suo impiego è stato da allora sollecitato, con alcuni salti in avanti nel privato e meno nel pubblico. Nel 2019, lo smart working in Italia era già cresciuto del 20% rispetto all’anno precedente, e la nostra redazione FOR, in tempi assolutamente non sospetti, ne sottolineava l’interesse. Ma a voler mettere i puntini sulle i, la forma di lavoro a cui abbiamo dovuto fare ricorso nello scorso anno e mezzo ha tutta l’aria di somigliare più al telelavoro a domicilio che allo smart working. La differenza, in realtà, è sostanziale quanto terminologica, oltre che contrattuale: se il telelavoro consiste nel lavorare in forma praticamente tradizionale ma a distanza, lo smart working richiede un ripensamento totale nel modo di controllare e delineare le attività lavorative. Questo è in un certo senso accaduto durante la pandemia, il che fa parlare gli esperti di smart working “emergenziale”.
Di necessità virtù (e vizi)
Sul terreno dello stravolgimento obbligato di condizioni e pianificazione del lavoro, si sono sperimentate nuove forme nella gestione del rapporto datore-dipendente e degli strumenti via via adoperati, per far fronte alla scomparsa di quelli tradizionali. Tutto questo ha, in molti casi, consentito «di tenere in piedi i servizi pubblici, […] spesso grazie all’impegno eccezionale di lavoratori che durante l’emergenza hanno messo a disposizione con generosità tempo, strumenti e creatività», come sottolineano ancora Bentivogli e Corso.
Su questo stesso punto, d’altro canto, la mancanza di chiare marcature contrattuali ha trasformato il lavoro di molti in un incubo senza fine, di altri in una vacanza sine die – starà al lettore di stabilire a chi è andata meglio. La mancanza di un cambiamento di visione, poi, ha reso in troppi casi lo smart working emergenziale un mero travasamento dell’ufficio nelle nostre camere da letto. Questo tipo di non-strategia, un telelavoro senza condizioni, ha chiaramente danneggiato salute e motivazione dei lavoratori e ne ha corroso i successi, costringendo molte persone a mescolare pericolosamente la vita professionale e quella privata. I nostri divani sono diventati i nostri uffici, i nostri cellulari (e i gruppi Whatsapp – a proposito: c’è di meglio) i luoghi di riunione. Le infinite sfumature del lavoro in era Covid, a emergenza finita (?), richiedono quindi un ripensamento – ma non una marcia indietro.
I pilastri del lavoro agile
E come si dice in casi così, dobbiamo ripartire dalle basi. Quanto a questo, la riflessione sullo smart working, come abbiamo detto, è già piuttosto matura, sebbene abbia solo tangenzialmente sfiorato la realtà italiana pre-Covid. L’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, ancora, propone quattro pilastri che rendono il lavoratore un lavoratore agile.
Le tecnologie: lo smart working è figlio della rivoluzione digitale. In quanto tale, sfodera tutto l’armamentario messo a disposizione dell’uomo del ventunesimo secolo. Il lavoratore agile dispone, nel suo ambiente di lavoro, di una dotazione tecnologica capace di «rendere virtuale lo spazio di lavoro» e allo stesso tempo sicuro e privato. La dematerializzazione dell’ufficio, cioè dei dati e degli strumenti, rendono comunicazione, collaborazione e socializzazione indipendenti dall’hic et nunc.
Le competenze: lo smart worker è formato per intraprendere l’attività lavorativa in un ambiente dematerializzato. Inutile girarci attorno: agile o no, il lavoratore del futuro deve disporre delle competenze digitali come di una nuova alfabetizzazione, senza le quali si rischia, soprattutto nelle realtà più al passo coi tempi, di essere tagliati fuori. Chi ha sperimentato l’uso di nuove tecnologie negli ultimi tempi sa benissimo che imparare a usare un nuovo strumento permette soprattutto di riconoscere nuovi contesti in cui non credevamo di averne bisogno.
Gli spazi: se il lavoro è dematerializzato, il lavoratore è però ancora fisico. Ma il luogo del lavoro agile non è più l’iconica postazione in cui accumulare carte, computer e persone – non serve più! Lo smart working si posizione in uno spazio abitabile, differenziato e riconfigurabile, che stimola la sociabilità e la riflessione.
La cultura: il lavoro agile è organizzato diversamente. Non esistendo più necessariamente orari di lavoro, il compito del manager non è più quello di vigilare sull’occupazione a qualsiasi costo di una postazione – non esiste più! – ma quello di assegnare compiti ai dipendenti e raccoglierne i frutti. Basato su meccanismi di motivazione e responsabilizzazione, il lavoro del futuro è un lavoro basato sul ruolo del singolo che impara a ritagliarsi il proprio contributo al progetto: ciò che stimola talenti, creatività, ripensamento delle prassi.
Cosa ci manca?
Gli italiani, si sa, sono un popolo di inventori. A voler essere ottimisti, le costrizioni della pandemia hanno visto in molti casi nascere dal niente condizioni di lavoro compatibili con almeno alcuni dei quattro pilastri dello smart working. Si capisce però che, specialmente nel settore pubblico, siamo ancora ben lontani da una visione sistemica del rinnovamento del lavoratore. Tanto per cominciare, siamo ancora troppo indietro sulle competenze digitali, un po’ per ragioni anagrafiche, un po’ per la lentezza pachidermica con cui sono state raccolte le sfide di revisione della formazione. Fanno bene Bentivogli e Corso a sottolineare come la sfida di un «gigantesco ricambio generazionale» per la Pubblica Amministrazione debba procedere in parallelo con l’attrazione di potenziali lavoratori agili. Stipendi non concorrenziali, proposte contrattuali non innovative e scarsi investimenti tecnologici rischiano di arrivare in ritardo anche a questo treno in partenza. E salire su un treno in corsa – perché correrà, e come se correrà – diventerà molto difficile. Tornare indietro sarebbe non un successo ma una resa, il vanto di una cecità di fronte alle nuove energie che popolano i nostri luoghi di lavoro.