La reputazione è un’altra cosa.
Sono ore e giorni della nostra storia in cui la reputazione fa svolte impensabili e definitive.
Quella di Elisabetta II, che ha avuto vita regale ma non semplice, che non sempre ha assecondato il suo popolo, ma lo ha sempre sostenuto, garantendo credibilità e peso al Regno Unito nel mondo. Più di un secolo di tenuta, di tradizione e innovazione. Il confronto con gli eredi sarà inevitabile.
La reputazione “pessima” di Putin (nata per ri-costruire fiducia imperiale dopo il crollo del 1991), si sposta ancora: la guerra non ha diviso il nemico, ma i presunti amici, soprattutto asiatici, attorno allo Zar di sangue. Più si radicalizza, più diventa un “paria” pericoloso. Due degli stakeholders più vicini, India e Cina, si mettono da una parte. Senza abbandonarlo, ma senza più sorreggere. Non una crisi momentanea ma una nuova, lenta riconfigurazione dell’ordine? Nulla, tra gli stati di “più recente sviluppo” è più pericoloso del mutamento delle frontiere con l’uso della forza.
La reputazione, faticosa, ondivaga e timida dell’Unione Europea si è ri-fondata sulla pandemia e sulla guerra. Fatta di risultati. La vastità e mobilità degli stakeholderinterni (popoli e governi) è attraversata da ferite vecchie e recenti, da illusioni pre e post-moderne. Quasi un miracolo che la maggioranza degli Stati interessati punti ancora sull’Europa.
La reputazione elettorale dei partiti italiani, declinante dal 1992 era fondata su un panorama di stelle fisse (la classe operaia, il ceto medio, la borghesia laboriosa) si è spostata, nelle sabbie mobili della percezione, sul tiki taka del cambiamento e della rabbia. Evocato, rinviato, strillato, riproposto. Come nel vecchio gioco dello scassaquindici: tutti i brand politici, ormai, recentissimi (chi li incarna un po’ meno), sotto la furia degli eventi hanno spostato innanzitutto “i posizionamenti” e ridefinito “la base” di giudizio sulla scala mobile delle “aspettative” degli stakeholder/elettori.
Chi è stato forza di opposizione radicale, ma non cieca, incamera consenso “per governare” chi ha “governato”, troppo, troppo poco o contraddittoriamente; prende lo scettro della delusione, illude sul “bene pubblico” con i soldi degli altri, e ad ogni “domanda” costruttiva risponde no. Chi è stato chiamato a governare, come Draghi, sulla base di una lunga esperienza e di una reputazione politica transnazionalee nazionale, trans partitica, è stato accantonato e rimossoassieme a tutto il principio di realtà, così chi era al 33 passa alla 12 o 14, dal 6 al 26, dal 18 al 21, eccetera: lo Scassaquindici.
Per un’azienda, come per un Paese, la reputazione non è solo un brand (quello sportivo dell’Italia ad esempio è fortissimo), neppur solo la forza della sua produzione, ma è il risultato di una lunga e mutevole conversazione tra gli stakeholder, informati, e le loro attese. Questo è parte crescente del valore. Ma non bastano “buone regole”, “buone leggi” (che aiutano) a misurarlo, perché anche le regole cambiano.
Guardate cosa sta accadendo, tra aziende e governi, sulla sostenibilità.
Sulla sostenibilità economica e climatica: siamo alle “baruffe chiozzotte”, i progetti bloccati dall’effetto Nimby riguardano soprattutto le energie rinnovabili, il recupero della indipendenza energetica fa discutere del colore dei rigassificatori. Chi è, in questa revisione dei valori e delle priorità, che fa greenwashing?
Le grandi compagnie energetiche o i comitati no a tutto come a Piombino?
Col tempo la reputazione dovrà evolvere tenendo conto di un’altra R: ragionevolezza. Una politica (o più d’una) che assicuri la “priorità del giusto” su quella del “buono”, che cambia a seconda delle “fedi” e delle “ideologie”.
Articolo a cura di Massimo Micucci, Direttore Merco Italia