Con la vittoria di M5S e Lega, il dibattito su Cambridge Analytica e le fake news si è diffuso un approccio apocalittico sul tema “consenso politico e web”. Il sunto del dibattito sembra essere: i social media generano mostri politici perché si nutrono di bufale e premiano chi detiene più tecnica comunicativa che etica politica.
Non è così. Anzi, il web non solo “chiede” la stessa offerta di visione politica degli altri media, ma oggi è l’ecosistema dove meglio può misurarsi l’evoluzione dell’opinione pubblica. Per affrontare in modo razionale il tema “consenso politico e social media” dobbiamo però liberarci da un paio di tic mentali. In primis il caso Cambridge Analytica. Sì, le compagnie online misurano i nostri comportamenti.
Ma no, non è detto che sia solo un male, e soprattutto non è una novità. I sondaggi, quelli fatti bene, lo fanno da sempre. Microtrend di Mark J. Penn, saggio fondamentale del 2007, è l’esempio di come si fosse arrivati a profilazioni di target molto accurate ancor prima dell’esplosione dei social. Secondo punto, le fake news. Sì, sono un problema, ma sul web non circolano solo quelle. Se prendiamo i dati della ricerca Global Digital 2018 ci rendiamo conto che fra i siti più consultati ci sono produttori di notizie “autorevoli” come Repubblica, Wikipedia, Yahoo news. Inoltre telegiornali e testate giornalistiche esistenti ben prima dell’avvento del web, stanno investendo in modo massiccio sulla diffusione dei loro contenuti in rete. Fate un giro sui siti e i profili social delle tv del digitale terrestre e Raramente i media si sono occupati di comunicazione politica e persuasione così tanto come nelle ultime settimane.
Lo scandalo Cambridge Analytica sta infatti occupando le prime pagine dei giornali, che accusano la società britannica di aver “rubato” i dati dei profili di più di 50 milioni di persone e di aver “manipolato” le menti degli elettori, influenzando il loro voto. La realtà, pur mettendo in luce una disinvoltura inquietante nell’utilizzo di dati sensibili da parte di diversi soggetti (Facebook, lo psicologo Kogan e la stessa Cambridge Analytica), è ben diversa. Kogan infatti ha raccolto dati in modo lecito grazie a un’app da lui gestita e collegata con Facebook, e li ha poi – in questo caso illecitamente – condivisi con Cambridge Analytica, un’agenzia di data mining, specializzata nell’utilizzo di big data a fini strategici, famosa per aver lavorato alla campagna elettorale di Donald Trump.
Il principio di fondo, però, è simile a quello utilizzato da Obama nel 2008 e nel 2012 (e da molti altri candidati, non solo negli Stati Uniti): raccogliere dati sugli utenti per definire in modo preciso i loro profili, e declinare su di loro il messaggio più efficace per il target a cui appartengono. La quantità di dati a disposizione dello staff di Trump in campagna elettorale, grazie a Cambridge Analytica, è stata immensa: uno strumento potenzialmente importante. Importante, ma non decisivo: se Trump avesse avuto meno dati a disposizione non avrebbe necessariamente perso le elezioni.
Tradotto: no, non sono i dati e il microtargeting a vincere le elezioni, e no, non sono le profilazioni precise a spostare le intenzioni di vedrete quanto sono seguite e quante news diffondono. Quindi il web non solo non è il luogo del falso, ma è un canale di comunicazione sempre più determinante per l’esito delle elezioni. Esito elettorale che i classici sondaggi hanno sempre più problemi a fotografare con esattezza.
Questo perché la previsione delle intenzioni di voto si costruisce in buona parte con questionari somministrati attraverso la rete telefonica fissa che in Italia, secondo AgCom, conta circa 20 milioni utenti. Molti? Vediamo i numeri del web. Secondo la ricerca Global digital 2018, infatti, gli utenti attivi italiani sul web sono poco più di 43 milioni e sono 34 milioni gli utenti dei social media (30 milioni solo su Facebook). Quindi affrontare in termini razionali il successo di M5S e Lega significa iniziare a prendere in esame il web anche solo per mere ragioni quantitative. E infatti, se si prende in considerazione l’engagement di Salvini e Di Maio, come dimostra uno studio Ipsos e Twiga, si nota come i due leader coinvolgessero gli utenti in misura di gran lunga maggiore dei loro avversari e questo rende meno stupefacente lo scenario emerso il 4 marzo. Ma quei risultati non sono il frutto di 30 giorni di campagna elettorale.
Il successo sul web che diventa “urne piene”, viene da un lungo lavoro di comunicazione e da un messaggio politico che offre una visione del mondo precisa, piaccia o meno quella visione. E sui social, come negli altri mezzi di comunicazione, paga la costanza della produzione e la tenuta sul medio periodo, non essere TT per un voto di milioni di persone. Sono i messaggi a fare la differenza. I dati, la definizione di micro-target e la profilazione degli elettori sono armi utili ed efficaci: se abbinate ad una adeguata ricerca qualitativa, aiutano a collegare ciascun segmento elettorale al tema più efficace da sviluppare per quel preciso profilo.
Ma, in questo binomio estremamente potente, non è la profilazione ad essere decisiva: è il messaggio. Un messaggio efficace e preciso è ciò che, più di tutto, può persuadere un elettore. La targetizzazione e la profilazione aiutano a potenziarlo maggiormente, a divulgarlo esclusivamente agli elettori su cui può avere maggiore influenza.
Un ruolo dunque subalterno al messaggio forte: senza di questo, si possono anche possedere i dati dei profili dell’intera popolazione, ma la persuasione di fasce importanti dell’elettorato sarà per forza di cose inefficace e mai completa. Ed è questo focus che è completamente mancato nella narrazione mediatica che vedeva Cambridge Analytica come un’azienda detentrice di un potere occulto, capace di plagiare le menti e costringere gli elettori a votare un candidato anziché un altro.
La comunicazione, quella politica in particolare, è un abito su misura: un messaggio deve essere perfettamente coerente con la storia e i valori evocati da chi lo divulga. Corrisponde, in poche parole, alla risposta alle domande “Perché ti candidi?” e “Perché dovrei votare per te?”. E le risposte non sempre sono facili: l’ideazione, l’elaborazione e la declinazione di un messaggio sono arti complesse, che variano a seconda del progiorno. Il successo dei 5S, ad esempio, viene da lontano.
Una community costruita in oltre 10 anni, che ha puntato sul web prima per fare rete (quando nessun altro partito lo faceva) e poi per disintermediare i suoi leader. Lo stesso ha fatto Salvini: partito dal 4% e dalla “ruspa” è arrivato ad essere il leader del centrodestra, eliminando “Nord” dal nome del partito. Quindi vincere sul web non significa solo possedere una tecnica ma – come nelle campagne pre-social – vuol dire soprattutto avere una visione del mondo coerente e sostenuta da valori chiari ed espliciti. Ma i social network non sono un’isola e anche loro s’inchinano davanti ai comportamenti pre-politici degli elettori e al contesto istituzionale sedimentato negli ultimi 20 anni.
La vittoria di Lega e M5S, infatti, si spiega anche con una recente abitudine degli italiani: preferiscono cambiare governanti piuttosto che confermarli. E il Porcellum, dal 2006, ha rotto il legame fra rappresentanza politica territoriale, organizzazione dei partiti e consenso necessario per essere eletti. Una scelta che ha determinato un nuovo modus operandi: i parlamentari hanno visto nei social la possibilità di essere attori di un dibattito nazionale mediatico senza dover passare per le retrovie del circolo o del territorio, preferendo presidiare il web. Inutile che vi dica quale soggetto politico è stato avvantaggiato, sul medio periodo, da quella legge elettorale. E la responsabilità non è di Zuckerberg, ma di chi ha scritto quelle regole del gioco.
(articolo pubblicato sul numero di Maggio de Il Mensile di Ottimisti & Razionali)
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