Contraddizioni ed errori della politica quando insegue petrolio, gas ed elettricità.
La mano destra non sa che cosa fa la sinistra (o viceversa): espressione assai abusata, ma è difficile trovarne una altrettanto efficace per spiegare cosa accade dalle nostre parti in materia di energia. E di politica energetica, anche se le cose non andrebbero confuse. Perché la politica fa – o dovrebbe fare – politica, assumendosi la responsabilità delle scelte che fa: giuste, sbagliate, magari passate al setaccio dell’ideologia, delle passioni e delle faziosità, convenienti o dissipatrici. L’energia, invece, non è mai giusta o sbagliata. È necessaria oppure non necessaria. Ed è di questo che la politica sembra non rendersi conto. Per cui, in materia energetica, compie da anni le più spericolate e contraddittorie giravolte, con il duplice, brillante risultato di non farsi comprendere da nessuno e di indebolire il già problematico patrimonio energetico nazionale. Facciamo tre esempi per capirci.
Il primo ha carattere generale, si chiama piano o strategia. Generalmente è un documento nel quale si fanno scenari futuri quanto al fabbisogno di energia nel paese, lo si confronta con le risorse disponibili e con i vincoli ambientali che si è deciso di rispettare, così che, alla fine, si scrive nero su bianco che bisogna fare questo e quell’altro. Benissimo. Peccato che non funzioni. Non funzionava ai tempi dei grandi monopoli energetici pubblici, figurarsi oggi, con mercati del tutto o quasi del tutto liberalizzati, dove uno decide se fare un impianto fotovoltaico o eolico in funzione degli incentivi e delle opportunità di mercato e non certo perché glielo dice un ministero (il quale, al massimo, può introdurre normative premianti o penalizzanti per condizionare i comportamenti). Risultato: l’ultimo documento in materia, la Strategia energetica nazionale, varato nel 2013 e poi revisionato un paio di volte, è molto interessante, ma è già stato largamente disatteso e, soprattutto, è privo di un capitolo, quello sulle risorse nazionali di idrocarburi. Allora: si discute, si redige un piano, che non viene rispettato perché non può vincolare un libero mercato dell’elettricità, del gas e del petrolio, e non si dice nulla sulle attività di ricerca e produzione di idrocarburi che potrebbero valere anche più di un decimo di quel che il paese consuma.
Secondo esempio: si è deciso che entro il 2025 le pochissime centrali a carbone attive in Italia dovranno essere spente. Le imprese che eserciscono questi impianti adeguano di conseguenza i loro programmi. Benissimo, plauso anche questa volta. Peccato che in un’isola non piccola, la Sardegna, se si spegne il carbone si spegne anche la luce, per cui la Regione si è vista costretta a chiedere una proroga (in Italia possono durare decenni, le proroghe). E peccato che chiudendo gli impianti a carbone viene meno una fetta non piccolissima della generazione elettrica, per cui gli operatori coinvolti propongono di realizzare nuovi impianti a gas naturale, necessari, peraltro, per compensare le discontinuità della generazione da fonti rinnovabili. Risposta delle amministrazioni locali coinvolte: no, mai e poi mai, dopo il carbone solo vento e sole. Ma senza le nuove piccole centrali a gas che compensano vento e sole non si potranno più costruire impianti a rinnovabili. Chissenefrega, ripetono le amministrazioni, vogliamo solo vento e sole. Anzi, no, nemmeno quello, come deciso in Puglia con una leggina di moratoria che il governo ha impugnato proprio nei giorni scorsi.
Terzo esempio, che lasciamo per ultimo, ma che ha una più stringente attualità. Una parte importante degli idrocarburi prodotti in Italia provengono dalla Sicilia, dove operano anche tre importanti raffinerie, che, da sole, garantiscono il 40 per cento del fabbisogno nazionale. Le raffinerie stanno lì per tre motivi: perché fu scelto di industrializzare una delle regioni meno favorite del Paese; perché un’isola è più comoda della pianura Padana (dove c’è pure una grande raffineria, ma alimentata da grandi oleodotti); perché in Sicilia si produce una quota importante del petrolio con la bandierina tricolore. Ma la Regione non sembra esserne entusiasta, quindi vara un piano per migliorare la qualità dell’aria che stabilisce che le raffinerie, insieme ad altri impianti industriali, dovranno rispettare severissimi limiti di emissioni in atmosfera, che però si possono ottenere solo con tecnologie implementabili negli attuali impianti solo in tempi più ragionevoli. L’obiettivo legittimo e apprezzabile – dicono i politici – è di ridurre le emissioni del 50 per cento. Il rischio più che reale è che le si riduca del 100 per cento, costringendo le raffinerie a cessare la loro attività. Mentre intanto sempre la Regione – per tornare a mano destra e mano sinistra – dopo un’istruttoria durata più di un decennio, autorizza giustamente lo sviluppo di nuove iniziative di ricerca di idrocarburi nel Sud-Est dell’Isola nell’ottica di una razionale transizione energetica, che prevedono un piano di rilevamento sismico dettagliatissimo, realizzato con la collaborazione dell’Università di Catania.
È possibile che in Italia si discuta di energia con queste modalità schizofreniche? Noi di FOR pensiamo sia giunto il momento di riprendere il discorso su basi diverse. Usando le armi dei contenuti e della concretezza, del dialogo e del buonsenso. Attivando tavoli comuni dove raccogliere serenamente le idee, ritrovare il filo logico delle cose, evitando sterili contrapposizioni tra amministrazioni, spiegando con trasparenza quello che si può fare, come va fatto per non produrre danni ambientali e perché conviene farlo. Lo faremo con un’iniziativa nazionale che stiamo preparando, e che non casualmente chiameremo “La mia energia”: per dire che bisogna uscire da astrattezze e ideologismi, e bisogna confrontarsi con le esigenze vere dei cittadini e dei consumatori. E da subito lo faremo anche in Sicilia, in un evento pubblico che terremo entro il prossimo mese di novembre, in una regione che di tutto ha bisogno fuorché di incomprensioni e inutili litigi.