Le previsioni, si sa, servono per essere smentite, ma io non voglio sottrarmi – con spirito ottimista e razionale – all’autolesionistico esercizio di stile, nel momento più surreale della crisi/non crisi. Il M5S ha appena ‘non votato’ la fiducia sul DL aiuti e conta di non pagare dazio per questo atto di evidente rottura politica. Spera che il governo non cada, che comunque non si precipiti verso le elezioni, e – da qui alla fine della legislatura – intende utilizzare il Parlamento come un taxi, a seconda delle convenienze, nel frattempo sognando di regalarsi una rinnovata, improbabile verginità antisistema. Una sorta di riesumazione della sfortunata formula del partito ‘di lotta e di governo’, al tempo della società liquida. Auguri.
E però, al netto del giudizio sulle sue capacità politiche e di leadership, a dir poco imbarazzanti, non mi sento di dare torto, nella fattispecie, a Giuseppe Conte. Il suo residuo di Movimento, decimato da scissioni, crolli elettorali e da una persistente, sconfortante immaturità politica, non ha altra via che questa per avventurarsi nella scommessa della rinascita. Non può restare al governo nelle condizioni date, per la progressiva e ormai ineluttabile perdita di centralità politica e programmatica, ratificata plasticamente all’iniziativa di Di Maio. Non può provocare esplicitamente le elezioni, per non andare subito e bellamente incontro al prevedibile harakiri. Dunque non resta all’avvocato che il sentiero strettissimo delle formulette ipocrite, delle giravolte verbali, dei bizantinismi: l’unico armamentario che maneggia con una certa professionalità.
Detto questo, amici miei, diciamoci con franchezza che il problema non è Conte né la sorte del M5S. Ed è sommamente stupido e solo autoconsolatorio il continuo dileggio nei loro confronti. La clamorosa anomalia italiana di un populismo carsico di enormi dimensioni, covato in lunghi anni ed esploso nel 2018, sarà assorbita – sempre parzialmente, inutile illudersi – solo se gli altri daranno risposte alla crisi di sistema in cui siamo precipitati dal 1992. Tutti gli altri, nessuno escluso, che prima hanno assistito increduli alla crescita del vaffanculismo, poi ne hanno mutuato linguaggio e posture, infine hanno tentato di utilizzarne cinicamente l’insediamento per succhiare qualche briciolo di consenso.
La campana suona innanzitutto per Letta e per il PD, ultimi a capire l’insorgenza del populismo, fuori tempo massimo nel tentativo di inglobarlo. La quantità di pelo sullo stomaco del partito-sistema e dei suoi incalliti governisti, convinti che il potere sia sempre il magico passepartout per le operazioni più spregiudicate, non è servita a metabolizzare gli anti-sistema per definizione, per ragioni antropologiche prima che politiche. Così il Pd, con il suo indifferentismo strategico, paga il tributo più pesante agli eventi di queste ore: gli viene meno ‘il punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste’ e resta ‘senza campo’, dopo aver tracciato ampi solchi tra sé e i piccoli mondi del riformismo italiano. Ora è nudo alla meta: dovrà per sua natura sostenere – insieme al centrodestra – chi porterà il paese alla fine naturale della legislatura, e nessuna union sacrée elettorale – contro il centrodestra – lo salverà dalla sconfitta nelle urne.
Non che dall’altra parte siano messi meglio. Salvini è stato bruciato sul tempo da Conte, e sarà costretto a portare a casa come una vittoria lo spostamento a destra dell’asse del governo. Si darà da fare per posizionare le sue issues nei mesi a venire, ma non potrà dare alcuna spallata; arriverà al voto esausto. Mentre l’acerrima nemica Giorgia Meloni – con la sua rendita di op/posizione – continuerà a macinare consensi, e Forza Italia rafforzerà il suo insediamento come inedito – e imprevisto – punto di equilibrio e moderazione istituzionale. Poi, nella prossima primavera, la finta coalizione – che anche in queste ore sta parlando lingue diversissime – vincerà le elezioni, e il finto governo che ne scaturirà sopravviverà ben poco. Non cadrà a causa di vigorose iniziative dell’opposizione ma sarà minato dall’interno, come è sempre avvenuto nella cosiddetta seconda repubblica, che pure nacque all’insegna della governabilità e della auspicata stabilità dei governi.
Come avrete capito, la prima previsione che questa mia lunga sbrodolata azzarda è che non si andrà a votare, né ora né nei prossimi mesi. Per quanto la nostra democrazia si voglia del male – e se ne vuole molto – non può consentirsi un trauma dalle conseguenze davvero insondabili. Una guerra da combattere, la pandemia da gestire, il PNRR da mandare avanti, l’economia da rilanciare: troppe sfide, e troppo importanti. Se non la volontà – piuttosto fiacca e oscillante – della gran parte delle sue componenti umane, sarà l’autopoiesi a determinare la sopravvivenza del sistema. Se poi il processo sarà accompagnato e governato – come sarà – da Sergio Mattarella, mi sento di prevedere che l’enorme bolla di irresponsabilità di questi giorni scoppierà come un palloncino, e di qui a poco Mario Draghi tornerà in Parlamento, per verificare l’esistenza di una maggioranza senza i Cinquestelle e continuare a governare fino al 2023.
La seconda previsione è in realtà un auspicio, forse un pio desiderio, ma non costa niente coltivarlo e quindi ve lo propongo. Dato che, nella mia visione delle cose, il problema si chiama “sistema”, non Giuseppe Conte, mi piacerebbe che tutti gli attori in scena fossero capaci nei prossimi mesi di un vero colpo di teatro: partorire insieme una nuova legge elettorale proporzionale, con sbarramento e preferenze, senza premi né altre finzioni maggioritarie, che consenta ad ogni elettore, nella primavera del 2023, di scegliere il partito che più si avvicina alle sue convinzioni. Il governo che dovesse nascere dopo il voto – anche scontando settimane di trattative difficili e snervanti per formarlo – avrebbe a quel punto certamente basi più solide di quelli farlocchi che abbiamo visto in azione negli ultimi 30 anni.
Ma qui, come capite, ottimismo e razionalità sfociano nella temerarietà.