sabato, 10 Giugno 2023

Occidente in crisi e opinione pubblica

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Sono passati quasi due anni dal referendum sulla Brexit. Da allora, ad ogni giro elettorale nelle democrazie liberali occidentali, abbiamo imparato una parola nuova, che razionalizzasse, nel migliore dei casi, o trovasse una giustificazione, nel peggiore, a quello che stava succedendo e che proprio non andava giù alle élite, all’establishment, alle classi dirigenti (o come diavolo vi aggrada chiamarle).

Postverità prima, fake news poi, psicometria adesso: insomma è tutta colpa della manipolazione operata da qualcuno attraverso la rete, per infinocchiare l’opinione pubblica. Per citare l’amato Julio Velasco, in molti si nascondono dietro la cultura degli alibi, perché la questione è molto più complessa. Aron Banks, uno dei finanziatori della campagna del leave al referendum sulla Brexit, indica tra le cause della sconfitta del remain il fatto che i sostenitori pro UE avrebbero costruito la loro propaganda solo attraverso dati fattuali, mentre a suo giudizio, sarebbe stato più efficace trovare il modo di riconnettersi emotivamente alle persone.

Michael Gove, uno dei principali sostenitori dell’uscita dall’Ue, aggiunge un ulteriore tema: moltissimi elettori sarebbero stati spinti a votare per il leave come una sorta di reazione al parere quasi unanime di esperti di economia e finanza, i quali spiegavano solo con numeri e tendenze gli effetti negativi che avrebbe avuto la Brexit per il Regno Unito. Quindi l’emotività e la paura sono stati argomenti più convincenti rispetto ai fatti, ai dati e alle previsioni? Ammesso che sia vero, ma è davvero colpa della rete? Proviamo a chiarirci.

È evidente che il meccanismo degli algoritmi, quello del clickbaiting che amplifica la diffusione di determinati contenuti e la tendenza al conformismo amplificate dalle camere dell’eco digitali, non fanno altro che rafforzare nel singolo utente la lettura parziale del reale e portare acqua al mulino della diffidenza, del pregiudizio e quindi della disinformazione.

La velocità di condivisione, insieme all’inattendibilità delle fonti, contribuisce a modellare una verità soggettiva e partigiana, che vanifica il potenziale informativo offerto da Internet. Tutto questo è oggettivamente un rischio connesso al digitale. Ma c’è anche molto altro. Trovo potentissimo il processo di democratizzazione delle informazioni e dei dati che la rete incarna.

E considero una benedizione la tecnologia abilitante che ha dato il potere a tutti di sentirsi liberi di esprimere un’opinione, anche se sballata, pure bislacca. Le resistenze maggiori a questo processo vengono da chi prima possedeva l’esclusiva nell’influenzare l’opinione pubblica, il chi, il cosa, il quando, il dove e il perché. In fondo questi sciami digitali iperconnessi, che dicono la loro su tutto, stanno sottraendo il controllo dell’agenda comunicativa e informativa a chi prima la considerava proprietà di pochi, e stanno costringendo le élite a misurarsi con la nuova società dell’opinione, a scendere dal piedistallo e a misurarsi con le persone comuni, con i loro limiti e le loro imperfezioni. Se Vaclav Havel fosse vivo, direbbe che la rete ha dato potere ai senza potere.

Che fare dunque? Se le classi dirigenti delle democrazie liberali occidentali continueranno a chiamare questo fenomeno complesso populismo, invece di riformare loro stesse, aprire loro stesse, mettere in discussione loro stesse, resteranno sorprese dalla marea da cui saranno travolte, e si assumeranno il rischio di far travolgere insieme a loro anche le istituzioni democratiche.

Perché il nodo della questione è tutto qui, un’enorme e irrisolta questione di sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti degli esperti e delle classi dirigenti. Jean Pisani-Ferry, economista e coordinatore del programma del movimento En Marche, scriveva a proposito del risultato del referendum sulla Brexit che molti elettori non si sono fidati degli esperti, perché il credito di fiducia nei loro confronti si è esaurito quando non sono stati in grado di prevedere la devastante crisi economico-finanziaria del 2008; perché gli esperti sono stati percepiti a grande distanza dalla vita delle persone comuni e totalmente indifferenti alle reali preoccupazioni della gente; perché sono stati responsabili di aver frammentato la società segmentando il dibattito pubblico in una miriade di discussioni specialistiche. Se però i cittadini non si fidano delle classi dirigenti e quindi della politica, ovvero se pensano che determinate scelte dipendano da interessi particolari e non da quelle generali, la sfiducia nei confronti di queste ultime contribuirà a far aumentare lo scetticismo nei confronti del corretto funzionamento della democrazia liberale.

Scrive il politologo Matthew Flinders: “La politica democratica è essenzialmente un’attività morale e pertanto la mancanza di fiducia nelle sue istituzioni e nei suoi processi, nonché negli uomini che vi si dedicano, riflette una mancanza di fiducia, molto più profonda, in noi stessi e negli altri”.

Non riporre alcuna fiducia nella politica non significa solo provare sentimenti negativi nei confronti di questo o di quel politico. Significa piuttosto arrendersi a un ineluttabile destino, in cui le capacità dell’uomo nulla possono contro l’inevitabile decadenza e declino. Siamo quindi di fronte a due strade: la prima, crogiolarsi nella cultura degli alibi, arroccarsi in certezze sempre più deboli e declinare nuovi –ismi, che hanno una mera funzione auto-assolutoria; la seconda, lavorare perché l’opinione pubblica sia messa in condizione di disporre di strumenti intellettuali necessari per distinguere tra realtà e finzione e ripensare a nuove forme, organizzative politiche e tecnologiche, per ricostruire un vero rapporto di fiducia tra élite e persone comuni, attraverso un dialogo informato e dunque costruttivo.

Quest’ultima è molto più faticosa, ma forse l’unica in grado di rammendare davvero gli strappi delle nostre società occidentali. In fondo Internet è nato soprattutto per questo.

 

di Francesco Nicodemo

 

(articolo pubblicato sul numero di Maggio de Il Mensile di Ottimisti & Razionali)

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è la cultura degli alibi: Postverità, fake news, psicometria, è tutta colpa della manipolazione operata da qualcuno attraverso la rete, per infinocchiare l’opinione pubblica[/dt_quote]

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