Siamo passati da Web1 a Web2 senza accorgercene, e ora ci troviamo catapultati nel Web3. Vediamo “Meta”, col simbolo dell’infinito, ogni volta che apriamo un social network. Ma cos’è il Web3? E il metaverso? Cos’è cambiato rispetto al passato, per noi, e cosa ci dobbiamo aspettare dal futuro?
Ne abbiamo parlato martedì 22 febbraio nell’evento digital organizzato dalla Fondazione Ottimisti&Razionali “Metaverso e Web3. Che valore abbiamo noi?” (qui è possibile rivederlo).
Massimo Micucci, Direttore Merco Italia e moderatore dell’evento, ha introdotto sottolineando la complessità del tema. Metaverso non significa solo indossare un visore per la realtà aumentata, ma agire in un contesto pluridimensionale, condividere, fare, grazie a sistemi decentrati e sicuri.
Da Web1 a Web3
Durante la pandemia degli ultimi due anni, ha spiegato Marco Bardazzi, Co-Founder e CEO di Bea – Be a Media Company, abbiamo assistito ad un’accelerazione della digitalizzazione. Con ogni probabilità, senza crisi, avremmo visto ritmi decisamente più lenti.
Negli anni Novanta eravamo nel Web1: osservavamo una meravigliosa vetrina, intoccabile. Il Web1 è diventato Web2 alla fine degli anni ‘10, grazie ad alcuni colossi, fra cui Google e Amazon. Il biennio 2006-2008 è stato caratterizzato dall’esplosione del blog, dei giornali sul web, dei primi smartphone – ricordiamo il blackberry e la sua innovativa tastiera. Sono nate le piattaforme Facebook e Twitter, gratuite e aperte a tutti. Era il 2006 ed eravamo nel Web2. Con la recessione, la digitalizzazione ha subìto una spinta in avanti, non diversamente da quanto accaduto di recente. Blockchain, criptovalute, NFT, metaverso, gaming, sono fenomeni in rapida evoluzione alimentati dalla crisi pandemica.
Ma, ha sottolineato Bardazzi, oggi per la prima volta in campo digitale abbiamo il concetto di ownership.
«Ownership significa essere proprietari del proprio racconto, dei propri dati e della propria identità, in un modo che nel Web1 e nel Web2 non era concesso».
La capitalizzazione dei dati
«Il grande evento epocale che si è verificato negli ultimi vent’anni, o forse dieci, è che si è creato un nuovo capitale: i metadati», ha spiegato Maurizio Ferraris, professore di Filosofia Teoretica all’Università di Torino, all’inizio del suo intervento. Prima i nostri comportamenti non erano registrati, oggi invece i nostri dati sono capitalizzati dalle piattaforme, che sono in grado di aggregarli e utilizzarli.
Con il Data Act, l’Europa, vincendo le fortissime opposizioni delle piattaforme, riuscirà a darci l’accesso a dati e metadati, ovvero quel capitale che rivela il nostro comportamento. Si potrebbe pensare, ha suggerito Ferraris, a delle piattaforme civiche a cui dare in delega i nostri dati in cambio, ad esempio, di investimenti sul territorio. I dati possono diventare – e in parte lo sono già – a tutti gli effetti una nuova valuta, se siamo in grado di usarli.
Il confronto con la giovane Corea
Barbara Carfagna, giornalista RAI, ha raccontato che in Corea, grazie alla predominanza della popolazione giovane, sono già in pieno Web3. Mantenendo una propria identità centrale e una forte consapevolezza, i giovani coreani utilizzano chat ed emoji come token con cui acquistare oggetti. Hanno dei digital twin, in una Seul digitale. Non è impossibile per l’essere umano, ma per noi, in Italia, in Europa, «è generazionalmente difficile immaginare di vivere in un visore pesante, senza tatto e olfatto, e imparare a gestire i nostri dati».
È importante dare la possibilità a chi vuole e chi può penetrare nei ragionamenti di farlo, offrendo vari strumenti, non solo quelli tradizionali. Un’eccessiva semplificazione potrebbe, infatti, falsare l’informazione. Invece, dare consapevolezza deve essere prioritario, la consapevolezza del valore delle azioni e del lavoro per i social network, in proporzione a quanto ne riceviamo: un valore immenso, economico e reputazionale. Siamo in un momento percepito come l’alba di una rivoluzione tale che nascono delle vere e proprie religioni che accompagnano la creazione della blockchain. Il cambiamento percepito è così grande che si sente la necessità di un qualcosa di spirituale.