sabato, 10 Giugno 2023

Ma cos’è successo in Kazakistan?

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Noel Angrisani
Laureato in Scienza della Politica, ha completato il suo percorso di studi con un master in Relazioni Istituzionali, Lobby e Comunicazione d'Impresa. Per due anni si è occupato di progettazione europea, successivamente ha lavorato presso un'agenzia di eventi corporate e B2B per il No-Profit. Dopo essersi cimentato nel public affairs, oggi lavora come consulente in ambito organizzazione e pianificazione.

La pigrizia intellettuale con cui gran parte della stampa italiana racconta la politica estera non aiuta la comprensione di dinamiche e fenomeni piuttosto complessi. Non fanno eccezione i disordini e le violente rivolte scoppiate in Kazakistan all’inizio di questo anno, in seguito all’aumento dei prezzi del gas naturale liquefatto. Nei giorni successivi sono emersi altri dettagli sulle ragioni del malcontento che rendono particolarmente interessante la questione kazaka. Il riflesso pavloviano ha portato alcuni osservatori a concentrarsi unicamente sullo status di satellite di Mosca, alimentando scenari da guerra fredda, quasi a sminuire il fatto di rappresentare la regione più ricca dell’Asia centrale oltre ad essere un player energetico strategico all’interno della Comunità degli Stati indipendenti.

La rilevanza del Kazakistan

Come la storia recente insegna, giudicare con schematismi quanto accade in ordinamenti collocati al di fuori dello schieramento liberal-democratico-occidentale simboleggia un mero (e presuntuoso) esercizio di stile, che però come dimostrano le rivoluzioni colorate negli Stati post-sovietici o le primavere arabe comporta un pericoloso effetto domino, soprattutto nell’ambito delle materie prime.

Infatti, la rilevanza geostrategica del Kazakistan in termini di forniture e risorse – in un contesto di global energy crunch – suggerirebbe un approccio prudente, evitando di solleticare gli spiriti più bellicosi. E il titolo di apertura del Financial Times di lunedì: “Nato stands ready for conflict in Europe, alliance chief warns Russia” non è certamente un buon auspicio.

Le rinnovate mire espansionistiche statunitensi e la volontà russa di proteggere il proprio cortile di casa rappresentano una minaccia non solo per la pace globale, ma soprattutto per le già fragili catene di approvvigionamento: tra i tanti fattori di forza del territorio kazako c’è sicuramente l’uranio di cui è il maggiore produttore al mondo – il 43 % della produzione globale – e trattandosi di una fonte primaria per alimentare l’energia nucleare (per informazioni, chiedere al partner francese) ulteriori sconvolgimenti avrebbero effetti letali sui mercati.

Tra risorse, mercato e criptovalute

Al di là dell’abbondante ricchezza presente nel sottosuolo, motivo di grande interesse e appetito per le potenze globali, il Kazakistan rappresenta un notevole crocevia di interessi economici, energetici e geopolitici. Il Paese rientra nella sfera d’influenza sino-russa – considerevoli legami anche per l’Italia – e la maggior parte dell’export va in quella direzione, ma pur in presenza di un notevole volume d’affari (sulla cui redistribuzione emergono le tipiche difficoltà degli stati post-sovietici) l’incontro con il libero mercato non è stato dei migliori.

Come si legge su Il Mulino «l’aumento del prezzo del Gpl è infatti una diretta conseguenza della progressiva liberalizzazione del carburante, ora venduto esclusivamente secondo le leggi di mercato, che nel quotidiano si è rivelata insostenibile per la classe media», già provata da un aumento dell’inflazione e dalla scarsa «opportunità di diversificazione che favorisce la concentrazione delle rendite e dunque tende a aumentare il divario socioeconomico nella popolazione».

Per tali ragioni è possibile annoverare anche il Kazakistan tra i giganti dai piedi d’argilla, impantanato tra ampie ricchezze naturali e profonde sperequazioni economiche. In tempi recenti, le evoluzioni dei mercati hanno offerto un ulteriore contributo al particolare status energetico del paese: la decisione maturata dalla Cina di dichiarare illegali gli scambi di bitcoin – anche a causa dell’enorme dispendio energivoro – ha significato il trasferimento, da Pechino, di circa 90 mila società di criptovalute in Kazakistan. Il risultato è stato duplice: il primo riguarda il vertiginoso «aumento della quantità di energia elettrica necessaria di algoritmi per produrre bitcoin» causando forti criticità nel soddisfare la domanda interna; il secondo fa riferimento alla quota di mining di Bitcoin sul mercato globale che colloca il paese al secondo posto nel mondo, dietro gli Stati Uniti.

Energia e bitcoin

Quest’ultimo è un dato ha sorpreso molti osservatori ma in realtà, per gli amanti delle criptovalute, il Kazakistan rappresenta(va) il territorio ideale per i costi contenuti dell’energia e una legislazione particolarmente permissiva. Le difficoltà emerse non sono una novità delle ultime ore. Già da qualche mese il governo ipotizzava di limitare il consumo di energia, modificando la legislazione esistente, consentendo al gestore di rete Kegoc di limitare o ridurre la fornitura di energia per il mining, in caso di carenza o per evitare situazioni di emergenza. Su Bloomberg, ai primi di dicembre, appariva un articolo già illustrava le criticità poi raccontate: «Il boom del mining di Bitcoin in Kazakistan si è concluso ancora più rapidamente di quanto fosse iniziato», si riferiva ormai di potenziale zero in territorio kazako e venivano riportare le parole di Almas Chukin – partner della società di private equity Visor Kazakhstan – con sede proprio ad Almaty, epicentro delle proteste: «è come il giorno e la notte, in questo momento in Kazakistan non c’è potenziale per il mining di Bitcoin».

La volatilità dei bitcoin rappresenta una sfida importante con riflessi in ambito economico ed energetico, il caso kazako è un esempio indicativo. Il nomadismo con cui si sposta la ricchezza virtuale sfugge al controllo dei governi, i quali non hanno ancora trovato le contromisure in grado di arginare un fenomeno, spesso con pochi limiti, che rischia di mettere in ginocchio il già stressato settore energetico.

I facili entusiasmi e lo stato di eccitazione di cui sono pervase le discussioni sulle criptovalute ricordano la stessa mania che attraversa il dibattito sul climate change. A tal proposito l’ IEA, nel rapporto annuale sul mercato dei combustibili fossili, segnala come «il carbone è la principale fonte di emissioni globali di carbonio e il livello elevato di produzione di energia da carbone» nel 2021 «è un segnale preoccupante di quanto il mondo sia lontano» dagli obiettivi di «riduzione di emissioni verso lo zero netto».

Con le debite proporzioni, non vorremmo tra qualche tempo tornare ai sesterzi.

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