Nota a Corte Costituzionale – sentenza del 14 giugno 2022 – n.148
La pronuncia della Consulta del 14 giugno 2022 n. 148 contiene una serie di principi degni della massima attenzione, ma non convince nel suo asserto di fondo. Procedendo con ordine, va delineata, innanzitutto, la materia (molto tecnica) del contendere. Sintetizzando al massimo, siamo nell’ambito delle sanzioni conseguenti all’utilizzo delle sostanze stupefacenti.
La Consulta esordisce con una affermazione generale di evidente spessore in cui afferma che l’art. 75 t.u. stupefacenti “rappresenta il momento saliente di emersione della strategia cui si ispira la normativa italiana in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope a partire dalla legge 22 dicembre 1975, n. 685 (Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope) volta a differenziare, sul piano del trattamento sanzionatorio, la posizione del consumatore della droga da quelle del produttore e del trafficante.”
“L’idea di fondo del legislatore – precisa la Corte – è che l’intervento repressivo debba rivolgersi precipuamente nei confronti dei secondi, dovendosi scorgere, di norma, nella figura del tossicodipendente o del tossicofilo una manifestazione di disadattamento sociale, cui far fronte, se del caso, con interventi di tipo terapeutico e riabilitativo”.
Per la Corte, l’intento terapeutico e riabilitativo, alternativo rispetto alla logica della punizione, perseguito dal Legislatore nei confronti del consumatore di sostanze stupefacenti si manifesta con particolare evidenza nella disciplina di cui al comma 2 dell’art. 75, che prevede l’invito all’interessato a seguire, “ricorrendone i presupposti”, un “programma terapeutico e socio-riabilitativo”, ovvero “altro programma educativo e informativo personalizzato in relazione alle sue specifiche esigenze”, predisposto dal servizio pubblico per le tossicodipendenze o da una struttura privata autorizzata.
Meno evidente appare, invece – prosegue la Corte – la natura giuridica delle “sanzioni” previste dal comma 1, da irrogarsi entro il minimo e il massimo previsto a seconda che la condotta abbia ad oggetto droghe cosiddette “pesanti” o “leggere”, e sottoposte a un procedimento applicativo che ricalca in larga misura quello previsto per la generalità delle sanzioni amministrative dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale): la sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni (lettera a); la sospensione della licenza di porto d’armi o il divieto di conseguirla (lettera b); la sospensione del passaporto o di altro documento equipollente, ovvero il divieto di conseguirli (lettera c); la sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o il divieto di conseguirlo, per ciò che concerne i cittadini extracomunitari (lettera d).
Al riguardo, occorre sottolineare – osserva la Consulta – che l’elevata carica di afflittività di queste misure rispetto ai diritti fondamentali sui quali esse incidono non esclude, di per sé stessa, la loro finalità preventiva, né depone univocamente nel senso di una loro natura “punitiva”.
In effetti, (prosegue ancora la sentenza) anche la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di cui all’art. 6 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia) comporta, o può comportare, prescrizioni o conseguenze accessorie di contenuto identico o analogo a quelle previste dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, quali segnatamente: il divieto di detenere o portare armi (art. 8, comma 4, cod. antimafia); il divieto di conseguire la patente di guida (art. 120, comma 1, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante «Nuovo codice della strada») o la sua revoca (art. 120, comma 2, cod. strada); l’espulsione dal territorio nazionale relativamente al cittadino di Stato non appartenente all’Unione europea (art. 13, comma 2, lettera c, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, T.U. stranieri).
Quanto poi alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale, prevista dall’art. 6, comma 3, cod. antimafia, essa produce – prosegue la Corte – “evidentemente” una limitazione della libertà di spostarsi nello spazio, ben più intensa rispetto al divieto di recarsi in taluni Paesi esteri, conseguente al ritiro del passaporto previsto dall’art. 75, comma 1, lettera c), t.u. stupefacenti.
Ebbene, la giurisprudenza costituzionale — questo è il punto da attenzionare — condividendo la valutazione già espressa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Grande camera, sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia, paragrafo 143) — ha negato natura punitiva alla misura della sorveglianza speciale, dalla quale pure discendono tutte queste pesanti limitazioni dei diritti fondamentali della persona, riconoscendone invece una finalità spiccatamente preventiva.
Identica conclusione si impone, di conseguenza, per le misure previste dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti. La conclusione è nel dispositivo: vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP).
C’è però una sommessa critica che si rivolge a tale articolato impianto motivazionale.
Il sistema si “tiene” e va conservato, in sintesi riepilogativa, in quanto, secondo la Corte, le misure anzidette hanno natura “preventiva” e non “punitiva”. Ma l’aggettivazione che le contrassegna è di natura formale e non sostanziale. Nella ruvida realtà quotidiana una custodia cautela in vinculis è concretamente afflittiva, anche se di natura precauzionale.
Non convince, infine, il raccordo con quanto affermato in sede europea in ambito delle misure antimafia. Il tertium comparationis non regge: lì il discorso ha tutti altri referenti ed entrano in gioco interessi apicali di difesa sociale.
La dura battaglia per la piena affermazione dei diritti fondamentali, che ha nella Corte Costituzionale il primo “motore”, subisce così una evidente battuta d’arresto.
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