domenica, 04 Giugno 2023

Le imprese editoriali viste dall’interno: intervista a Virginia Stagni

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Manuela Scognamiglio
Napoletana doc, vive a Milano e lavora nell'advertising. È appassionata di lingue e comunicazione. Apprezza le sfide, il coinvolgimento internazionale e la conoscenza, così come il confronto con le persone. Crede nella condivisione delle esperienze, nella creazione di opportunità e nel cambiamento.

Abbiamo intervistato Virginia Stagni, Business Development Manager del Financial Times e autrice del libro Dreamers Who Do. Dal suo percorso al giornalismo moderno, passando per ciò che Virginia ha scritto nel libro pubblicato questo novembre.

Virginia Stagni
Virginia Stagni
  • Diamo un’occhiata rapidissima al tuo percorso. Da sempre appassionata di giornalismo, hai iniziato un percorso al Financial Times a Londra, con una posizione manageriale, in un mondo in cui le figure manageriali, fino a qualche anno fa, non esistevano. Ci racconti qualche behind the scenes?

Certo. Allora io sono Business Development Manager per il Financial Times. Il mio compito è quello di sviluppare nuovi modelli di business per l’azienda. Non sono una giornalista, sono parte dell’ala commerciale dell’azienda avendo, chiaramente, una sensibilità rispetto a quello che è il concetto di news e la funzione sociale di giornalismo. Sempre di più, oggi, entrano in gioco nelle imprese editoriali delle figure manageriali che però riescono a coinvolgere, nelle conversazioni commerciali, anche la parte più filosofica e culturale dell’azienda, quella dei giornalisti.

È giusto quello che dici sulla mancanza di figure manageriali all’interno delle redazioni. È un trend nuovo, ma sempre più necessario. Al Web Summit di Lisbona, a cui ho partecipato qualche settimana fa, uno degli invitati diceva: «i giornalisti fino ad oggi non si sono mai chiesti come l’azienda per cui lavoravano facesse soldi; e invece adesso questa domanda se la devono porre tutti». Prima, il giornale era la redazione, punto. Adesso, con la digitalizzazione e le nuove piattaforme, nascono anche nuove figure che devono saper congiungere interessi diversi, ma soprattutto expertise diverse. Questo significa anche talenti nuovi, che rappresentino la commistione tra anima commerciale e sensibilità editoriale e possano ad esempio, costruire partnership con il mondo tech, cosa che non ci si può aspettare da un giornalista. Ci vuole un apparato di gestione che abbracci le redazioni.

  • Nel tuo libro Dreamers Who Do, scrivi: “Journalism must deal with today’s modern world. Embracing it with openness means changing to avoid being left behind” (trad. il giornalismo deve affrontare il mondo moderno di oggi. Abbracciarlo con apertura significa cambiare per evitare di rimanere indietro). Qual è il cambiamento di cui parli e come si dovrebbe articolare?

È una questione di antropologia aziendale: le persone che devono popolare l’impresa editoriale oggi sono figure fluide, nuove, che portano all’interno dell’azienda le innovazioni e le evoluzioni che non ci si aspetta dal mondo del giornale di oggi, che ha sempre più competitor indiretti. Devono capire con apertura mentale quello che arriverà domani e non esserne travolti o sormontati, bensì saperlo accogliere.

Per fare ciò, c’è bisogno di figure imprenditoriali intraprendenti, curiose, creative che vadano al di là del solo contenuto e di ciò che si può fare con il contenuto in sé, ma che riescano a ragionare per insiemi. Per questo, ho utilizzato il termine di antropologia: le persone che ci si dovrebbe augurare di portare dentro alle imprese editoriali sono persone che cambiano anche la filosofia con cui l’azienda si approccia al futuro e ai nuovi challenge. Le redazioni oggi vengono sfidate costantemente, ma in modo positivo.

  • In un mondo in cui i social catturano molta più audience, come può un giornale essere protagonista, restando autorevole?

I social media non sono altro che l’ennesima piattaforma su cui il tuo contenuto può andare. È vero che i social raggiungono molta più audience, ma non sono i social in sé a farlo, sono i diversi contenuti sui social, che non fanno altro che aggregare valori in una precisa linea editoriale, quella che il produttore di contenuti in questione dà alla propria pagina social. È molto interessante pensare che ogni pagina social in sé, con i suoi follower, il suo engagement è un potenziale competitor ma allo stesso tempo, volendo, un qualcuno con cui collaborare sui medesimi contenuti. La collaborazione che mantiene i propri equilibri e il delineare un percorso, senza voler raggiungere chiunque, sono premesse fondamentali per entrare nel mondo dei social.

Il giornalismo, per restare autorevole, deve sapersi vedere come un brand, quindi sapersi riconoscere

con determinate missioni e valori e restare fedele a quelle missioni e a quei valori. Questo permette di fidelizzare la propria audience di riferimento ed emergere anche nel mondo dei social che, ripeto, sono solo una piattaforma.

Virginia Stagni
  • Sempre nel tuo libro, spieghi che tutti, volendo, possono essere imprenditori. Anche chi lavora in azienda. In questo secondo caso, è più giusto dire intrapreneurs. Cos’è un intrapreneur per te?

L’intrapreneur è l’imprenditore in casa (“entrepreneur in house”). È chi ha un approccio imprenditoriale anche se strutturato da una cultura altra. Non sei l’imprenditore che dà la propria linea editoriale, la propria cultura e missione all’azienda, ma devi saperti adattare. Per questo, è molto importante che ci sia un giusto match tra le persone creative, innovative, che entrano in azienda e i valori dell’azienda stessa. A quel punto, bisogna riuscire a fertilizzare un terreno che già di per sé è buono; non tarpando le ali ai sognatori che vorrebbero fare, ma permettendo loro di avere spazi creativi in cui confrontarsi, rapportarsi con l’esterno, in quanto anche ambasciatori del brand.

L’intrapreneur è colui che utilizza un approccio innovativo come se l’azienda fosse la sua, perché gli viene data libertà, seniority, budget su un determinato argomento. Io, ad esempio, mi sento una figura “imprenditoriale” grazie allo spazio che mi ha dato il Financial Times, per quanto riguarda l’innovazione di partnership e progetti che si focalizzano sugli under 30. Mi viene data, in questo contesto, maggiore libertà e indipendenza, che mi permettono di avere nuove idee e concretizzarle.

Se si lascia un po’ di libertà di manovra alle persone che hanno maggiore libertà di pensiero e voglia di fare, si può mantenere in azienda anche chi ha uno spirito piuttosto imprenditoriale. Purtroppo, ancora non viene capito da tutti; spesso, infatti, queste figure (a me in primis è capitato), si sentono dire: «sei troppo imprenditoriale per questo ruolo, sei troppo creativo». Perché tutta questa paura di trovare persone che non sono così facili da controllare? Avranno molta più voglia di prendersi responsabilità e di delegare. Sono un vantaggio per l’azienda, e i media in particolare ne hanno veramente bisogno.

  • Alla presentazione di Dreamers Who Do a Milano, hai detto che il giornalista deve essere “un facilitatore di lettura”. Come cambia la figura del giornalista moderno e come deve gestire secondo te la centralità dei social?

Apertura mentale è la parola chiave. E poi scendendo dalla torre d’avorio. Il giornalismo non è più IL giornalismo; ci sono tantissime fonti, tanti competitor. La grande capacità di un giornalista oggi è sapersi adattare, senza voler fare tutto: diventare esperto, lavorare con fonti verificate, essere utile alla comunità che vuole servire.

Quando io parlo di “facilitatore di lettura”, voglio dire che il giornalista è colui che mi dà gli strumenti per potermi informare. È il lettore, oggi, il punto focale. Questa è anche un’opportunità dal punto di vista delle collaborazioni con le comunità, che diventano sempre più importanti. Bisogna riguadagnare la fiducia del lettore, che spesso si è persa. Forse perché non si sono prese posizioni chiare; e allora bisogna essere più value driven. Un facilitatore di lettura, quindi, non tanto pedagogico, ma piuttosto strumentale.

  • Sempre nel tuo libro, parli dei giornali come imprese editoriali. Cosa dovrebbero cambiare i giornali italiani per definirsi tali?

I giornali italiani dovrebbero pensarsi più come imprese e meno come redazione. Anche qui, direi che la risposta è avere apertura mentale. Non è più solo il contenuto che conta, ma i dati, la tecnologia, il prodotto, l’analisi. Tutto questo mondo esterno non è un attributo in più, ma è vitale per il futuro del giornalismo. L’impresa editoriale è fatta di diversi dipartimenti che devono avere il medesimo peso. In Italia, qualche volta, purtroppo, vediamo ancora dinamiche un po’ novecentesche all’interno delle redazioni, e questo non fa altro che rallentare il cambiamento.

Allo stesso tempo, la grande preziosità dell’esperienza di come si faceva giornalismo vent’anni fa dovrebbe essere riesplorata: il contatto diretto con la comunità, l’educazione al mestiere; tutto questo prima si faceva. Adesso, con il digitale, c’è forse un’ipermonetizzazione quasi sclerotizzata del mestiere della redazione: si pensa di poter fare tutto in una masterclass di venti minuti a pagamento, quando così non è.

Pensiamo le imprese editoriali più a 360° ma sfruttiamo anche la ricchezza del passato.

  • Quali sono le principali differenze tra il giornalismo italiano e quello anglosassone, sulle quali eventualmente si può far leva per migliorare?

Il giornalismo italiano è sicuramente un giornalismo di qualità, di tradizione meravigliosa. Non a caso, la cultura politecnica l’abbiamo insegnata noi. Abbiamo grandi penne, c’è un contatto reale con le persone rispetto a quello anglosassone, che forse risulta un po’ più formale.

Il giornalismo anglosassone, però, è più aperto mentalmente da un punto di vista tecnologico, di collaborazione, di sperimentazione. Più studiato con un approccio strategico, di lungo periodo.

La debolezza del giornalismo italiano forse è vivere un po’ troppo nel passato e non sapere come aggiornare i modelli culturali meravigliosi di cui gode nel mondo di oggi. La base è ottima da un punto di vista filosofico, ontologico; ma non è al passo con i tempi. Mancano i fondi, ne sono consapevole. Ma spesso, manca anche la voglia di lanciarsi e di rischiare.

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