È stato da poco pubblicato, ed entrerà in vigore il prossimo 27 gennaio, un decreto che modifica ancora una volta il Codice dell’amministrazione digitale (CAD), introducendo qualche novità (il difensore civico per il digitale unico; la piattaforma nazionale per la governance della trasformazione digitale e la piattaforma digitale nazionale dati) e ritoccando altri istituti sin qui poco efficaci (identità e domicilio digitale; conservazione dei documenti informatici; pagamenti con modalità informatiche; servizi fiduciari).
Si tratta della decima novella al Codice del 2005, la cui paternità sostanziale è stata intestata al Team per la Trasformazione Digitale, struttura commissariale istituita nel 2016 per l’attuazione dell’Agenda Digitale Italiana (competenza rimessa, tuttavia, istituzionalmente all’Agenzia per l’Italia Digitale). Negli ultimi anni, i provvedimenti che hanno inteso regolare la rivoluzione digitale della Pubblica Amministrazione sono molteplici e assai variegati; oltre alle continue riforme del CAD, si possono citare i due decreti sulla trasparenza amministrativa, il Regolamento europeo eIDAS, le norme sull’e-procurement contenute nel nuovo Codice degli appalti, il corposo Piano Triennale per l’Informatica nella PA. A fronte di questa bulimica produzione normativa, la recente rilevazione Eurostat sui dati della Digital Economy and Society in Europa ci dice che l’Italia è agli ultimi posti sul fronte dell’utilizzo dei servizi di e-government. Come se la rincorsa del diritto alla tecnica fosse tendenzialmente inadeguata, se non inutile.
In realtà, non si può dire che il citato Piano Triennale per l’Informatica nella PA non sia effettivamente innovativo e ben congegnato; allo stesso modo, le novità sulla trasparenza amministrativa risultano potenzialmente idonee ad innalzare considerevolmente il livello di conoscenza e partecipazione dei cittadini sull’azione dei pubblici poteri. Manca, però, sempre qualcosa per dare un reale slancio all’innovazione, trasformare sul serio il volto dell’Amministrazione e rafforzare la fiducia in quest’ultima da parte dei cittadini. Questo qualcosa non può essere, o almeno, non può solo essere il diritto, che fatica inesorabilmente a star dietro all’innovazione, specie se si riproducono gli schemi tradizionali dei processi normativi, ossia regole ed istituti che cambiano a distanza di mesi, sovrapposizioni di fonti, tipiche e atipiche e, soprattutto, concorrenza di competenze, con la creazione “straordinaria” di organi commissariali provvisti all’occorrenza anche di giuristi che contribuiscono a produrre norme.
Probabilmente, per intraprende un percorso diverso in cui il diritto, anzitutto quello studiato, risulti davvero utile ad accompagnare le trasformazioni della realtà, non farebbe male la lettura della sterminata letteratura anglosassone sulla government innovation e, in particolare, gli studi sulla relazione tra e-government, e-democracy e social media dove si indaga sulla necessità di sfruttare ed integrare le piattaforme digitali per un innalzamento effettivo della trasparenza, della partecipazione e della qualità dell’azione pubblica.
Le pubblicazioni dei più importanti accademici americani e nord-europei hanno ispirato, sin dalla fine degli anni novanta, i nuovi modelli di interazione tra potere pubblico e cittadini, favorendo lo sviluppo di iniziative, quali la ConnectED Initiative o le Flagship initiatives, che stanno realmente producendo risultati in termini di utilizzo degli strumenti digitali e di fiducia dei cittadini verso le istituzioni. La chiave di ogni riforma che riguarda le nuove tecnologie è, in estrema sintesi, riposta nell’uso adeguato e proporzionato delle risorse che la stessa realtà digitale offre, partendo, anzitutto, dal superamento del modello dialogico one-way – tipico del nostro apparato amministrativo – verso canali di comunicazione e relazione esclusivamente in modalità two-way.
In questo senso, la creazione di piattaforme abilitanti costruite sul modello dei social media rappresentano il futuro obbligato delle relazioni tra amministrazione e cittadini, ovviamente sul presupposto che le PA siano messe nelle condizioni di utilizzare tools realmente efficienti ed inclusivi. In tale prospettiva complessiva, il ruolo del diritto non può essere, evidentemente, quello di cambiare ogni mese per star dietro alle più recenti novità tecnologiche, dato il rischio comunque elevatissimo di rimanere costantemente in ritardo. Il compito del legislatore è, in realtà, quello di prevedere, magari una volta per tutte, l’introduzione di strumenti tecnici sempre adeguati all’ambiente tecnologico di riferimento, e di assicurare la sostenibilità finanziaria del loro utilizzo, ivi compreso il reclutamento massivo di personale consapevole e all’altezza del nuovo verso dell’azione amministrativa.
Una volta riconosciuti il valore della cittadinanza digitale e i diritti che ne conseguono va quindi garantito il loro godimento. Come gli ospedali vanno riempiti di medici competenti e le scuole di bravi docenti, così l’amministrazione digitale ha bisogno di personale che sappia svelare ai cittadini l’irresistibile efficienza e trasparenza della nuova macchina pubblica.