sabato, 10 Giugno 2023

La Consulta ed i “vuoti” legislativi

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Diotima Pagano
Laureata in giurisprudenza. Fortemente convinta che il diritto sia (anche) fantasia, creatività, interpretazione e molto spesso filosofia. Amante della Vespe e della musica in vinile. Il suo motto è "...Things To Come..."

Nota a Corte Costituzionale sentenza del 24 settembre 2021 – n. 185

 “La forma è vuoto, e il vuoto in realtà è forma”

La Consulta si è pronunciata sulle sanzioni amministrative che presidiano la tutela della salute, declinata con riferimento alla ludopatia.

La sentenza in commento ha dichiarato incostituzionale l’art. 7, comma 6, secondo periodo, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158[1] (“Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”), che punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria (pari a cinquantamila euro) l’inosservanza delle disposizioni di cui al comma 5 del medesimo articolo: tali disposizioni prevedono, a carico di coloro che offrono giochi o scommesse con vincite in denaro, una serie di obblighi a carattere informativo, intesi a porre sull’avviso il fruitore riguardo ai rischi di dipendenza da una simile pratica.

Sulla tragicità del fenomeno, basta qui solo menzionare la recente pronuncia della Cassazione Penale n. 36709/2021[2] ove si riconosce come la ludopatia costituisca una compulsività da inquadrare quale disturbo psichico alla stregua dei parametri elaborati dal DSM V, che costituisce l’ultima versione del Manuale diagnostico dei disturbi mentali, pubblicato a cura dell’American Psychiatric Association (APA)”.

Scopo della presente nota è incentrato, tuttavia, sul quadro di riferimento generale in cui la pronunciasi va ad inserire.

Specificamente, in quali limiti – e se ne sussistono – la Consulta può optare per la “demolizione” di una norma sanzionatoria, creando così un possibile, eventuale vuoto di tutela.

La questione (nella controversia de qua) è stata posta da una eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato che ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate, sul rilievo che il giudice remittente si sarebbe limitato a denunciare l’illegittimità costituzionale della norma censurata, senza affatto indicare se e come la lacuna che conseguirebbe alla sua ablazione possa essere colmata: con il risultato che, ove le questioni fossero accolte, comportamenti «di incontestabile gravità», quali quelli considerati, incidenti sulla tutela del fondamentale diritto alla salute, rimarrebbero privi di qualsiasi sanzione. Verrebbe pertanto a crearsi, «inammissibilmente», un vuoto normativo, non colmabile – in attesa di una nuova previsione legislativa – «da altra disposizione vigente se non attraverso l’intervento additivo…»: intervento da ritenere, «però, non consentito».

Negativamente perentoria, è la risposta della Corte Costituzionale.

Per la Consulta, non può essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale delle leggi la carenza di disciplina che da essa possa derivarne, in ordine a determinati rapporti.

Spetterà (prosegue la sentenza) – laddove ne ricorrano le condizioni – ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione e, comunque sia, al legislatore provvedere a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che – in conseguenza della decisione stessa – apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione.

Secondo la Corte, il principio è riferibile anche ai casi in cui lo scrutinio di legittimità costituzionale verta su una norma sanzionatoria e le censure investano l’entità o la strutturazione del trattamento punitivo.

In sintesi, l’esigenza di far ricorso a una pronuncia di tipo manipolativo, che sostituisca la sanzione censurata con altra conforme a Costituzione, si pone “imprescindibilmente” solo allorché la lacuna di punibilità che conseguirebbe a una pronuncia ablativa, non colmabile tramite l’espansione di previsioni sanzionatorie coesistenti, si riveli foriera di «insostenibili vuoti di tutela» per gli interessi protetti dalla norma incisa: come, ad esempio, – afferma la Corte – quando ne derivasse una menomata protezione di diritti fondamentali dell’individuo o di beni di particolare rilievo per l’intera collettività rispetto a gravi forme di aggressione, con eventuale conseguente violazione di obblighi costituzionali o sovranazionali.

In simili ipotesi, (precisa la sentenza) il vuoto normativo conseguente alla rimozione pura e semplice della disposizione scrutinata non sarebbe tollerabile, neppure temporaneamente: ciò, tanto più alla luce della considerazione che un intervento legislativo inteso a colmare la lacuna, per quanto immediato, opererebbe, di necessità, solo per il futuro (stante l’inderogabile principio di irretroattività della norma sfavorevole in materia punitiva). Esso non avrebbe, quindi, alcun effetto sui fatti pregressi, i quali, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale, diverrebbero automaticamente e definitivamente privi di ogni rilievo penale, persino in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna, i cui effetti verrebbero a cessare (art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»): disciplina, questa, da ritenere riferibile anche ai fatti colpiti con sanzioni amministrative a carattere punitivo.

È in tali casi che la rimozione del vulnus costituzionale resta necessariamente condizionata all’individuazione di soluzioni sanzionatorie che – nel rispetto dei limiti ai poteri della Corte, che escludono interventi di tipo “creativo” – possano sostituirsi a quella censurata: soluzioni rinvenibili – secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, ispirata dall’esigenza di evitare la creazione di “zone franche” intangibili dal controllo di legittimità costituzionale – anche fuori dal tradizionale schema delle “rime obbligate”, facendo leva su «precisi punti di riferimento» offerti dal sistema normativo vigente, anche alternativi tra loro, salvo un sempre possibile intervento legislativo di segno differente, purché rispettoso della Costituzione.

Due considerazioni finali.

L’excursus della Corte consolida la sua posizione di “superiorem non recognoscens”, rispetto al legislatore, pur nell’ambito delicatissimo dei possibili vuoti legislativi causati dalle sue pronunce.

Ancora più pregnante, la considerazione che, anche, nel contesto delineato di riparto delle competenze fra poteri apicali, si consolida la centralità dei diritti fondamentali, la loro capacità di far “lievitare” l’Ordinamento verso soglie amplificanti di attenzione ai valori irrinunciabili della persona umana.

Articolo a cura di Diotima Pagano


[1]https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2012/09/13/012G0180/sg

[2]L’esclusione della ludopatia dal beneficio sospensivo di cui all’art. 656 c.p.p., comma 5 e D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 90 e 94 non discende dalla rilevanza nosografica di tale disturbo compulsivo – non essendo contestabile il suo inquadramento come disturbo psichico alla stregua dei parametri elaborati dal DSM V, che costituisce l’ultima versione del Manuale diagnostico dei disturbi mentali, pubblicato a cura dell’American Psychiatric Association (APA) – ma dalla natura della disciplina applicabile alla fattispecie.” – estratto da Corte di Cassazione – penale  sez. I – sentenza dell’8 ottobre 2021 – n. 36709

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