Da quasi un decennio la Cina sta provando a costruire la propria credibilità come player in grado di rispondere alle sfide poste dalla green economy e dalla transizione energetica. L’ultimo tentativo di abbandonare il primato di più grande produttore mondiale di CO2 arriva dal lancio del sistema di emissioni (ETS) con cui sfruttare i meccanismi di mercato per raggiungere il picco di emissioni di anidride carbonica entro il 2030 e la Carbon neutrality nel 2060.
Aspettative e realtà (non solo in Cina)
L’onda verde che da tempo sferza le grandi potenze mondiali non ha risparmiato neanche la Repubblica popolare cinese, la quale ha dovuto adeguarsi e riconvertire i propri sistemi energetici. Una transizione che ha inevitabilmente investito anche gli ambiti filosofici, motivo per cui si è fatta strada l’idea di civiltà ecologica (veicolata dall’ex Presidente della Repubblica e Segretario del Partito Comunista Hu Jintao) intesa come modello che possa sostituire quello industriale e armonizzare il rapporto tra l’uomo e la natura, temperando gli effetti nocivi dei sistemi produttivi.
Le questioni di cui discute in ambito ambientale vengono declinate secondo un’accezione ideale o di principio, eludendo o bypassando quelle di natura economica. Solo per restare all’ultima settimana (ma l’elenco sarebbe ben più lungo) oltre al mercato cinese, sono diversi gli accordi e le politiche portate avanti per ridurre le emissioni di CO2 – dal piano climatico Fit for 55 fino alla scommessa green del G20 di Napoli – ma nonostante i numerosi impegni profusi e gli sforzi considerevoli per la transizione energetica, inesorabile arriva la realtà a presentare il conto.
I costi della transizione
Infatti, secondo il Sustainable Recovery Tracker dell’IEA nel 2023 ci sarà il record mondiale di emissioni ed è altamente probabile che possa crescere negli anni successivi, ma soprattutto senza “alcun picco chiaro in vista”. Il senso di disorientamento che viene restituito osservando le politiche ambientali e gli scarsi risultati ottenuti è amplificato dai costi e dalla sostenibilità economica di tali ricette. La riduzione o l’abbandono di energie fossili, secondo alcuni osservatori, rischia di generare uno svantaggio competitivo rispetto a paesi che compiono scelte diverse, ma soprattutto un costo che viene scaricato sulla bolletta dei consumatori.
Osservare il modo in cui la Cina si è mossa e si muove sullo scacchiere globale autorizza a mantenere delle riserve in merito al raggiungimento degli obiettivi dichiarati. Indubbiamente nel corso di questi anni la Repubblica popolare ha fatto significativi passi avanti sul tema del rispetto ambientale – i piani quinquennali ne sono una dimostrazione – ma la scarsa trasparenza e accuratezza dei dati, il sistema di regolamentazione scelto e la fragilità della struttura legislativa, piuttosto incerta sul versante delle sanzioni alimentano forti perplessità.
Una speranza per il futuro
Inoltre, se in sistemi più sensibili alle istanze green e con tassi di emissioni molto più bassi rispetto alla Cina, la transizione energetica non ha dato (ancora?) i frutti sperati, in un mercato complesso come quello cinese puntare sul ritiro delle centrali a carbone, senza considerare le grandi incertezze sul prezzo significa lasciare il noto per l’ignoto, con l’alta probabilità – vista l’esperienza europea – che ci vorranno diversi anni per avere un impatto significativo.
Se la strada per l’inferno (energetico) è lastricata di buone (e lodevoli) intenzioni, la transizione cinese non sarà un pranzo di gala.