domenica, 24 Settembre 2023

Il sistema ETS: un bignami per non perdersi

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Antonio Somma
Laureato in fisica all'Università Federico II, diplomato in pianoforte e in composizione al Conservatorio di Napoli, sua prima e ultima città, scrive poca musica, suona un po' di più, studia di tutto da sempre. Orgoglioso esponente della generazione Erasmus, dal 2020 dottorando in acustica musicale e musicologia alla Sorbona di Parigi.

In politica, si sa, il tempismo gioca un ruolo chiave. Tante rivoluzioni mancate sono esplose al momento sbagliato, estinguendosi come fuochi di paglia. Così l’ambizioso pacchetto di progetti della Commissione Europea sul clima rischia di diventare impopolare agli occhi degli Stati membri, se nel frattempo la volata dell’economia post-pandemica comincia a mostrare le sue storture, i colli di bottiglia negli approvvigionamenti, l’inflazione e – soprattutto – i rincari in bolletta. L’impressione che si ha è che il solo menzionare il ‘Fit for 55’, il complesso delle misure, proposte dall’équipe di Ursula von Der Leyen, per abbattere le emissioni di gas a effetto serra del 55% rispetto al 1990, faccia volare il costo dell’energia nelle case degli europei. A nulla valgono le rassicurazioni del Commissario Europeo per l’azione climatica, Frans Timmermans, che attribuisce all’aumento del prezzo del CO2 solo un quinto del rincaro complessivo a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane.

Alcuni Paesi membri, Francia in testa, spingono per ammortizzare i costi a livello comunitario e per procrastinare sulle misure, volte, senza se e senza ma, a dare un costo sempre maggiore all’inquinamento. Il Presidente Emmanuel Macron si ricorda bene di come, a introdurre la famosa tassa sul CO2, introdotta nel 2014, vendette cara la pelle e l’agenda politica, scompaginata dalla memorabile rivolta dei gilets jaunes – non tutti sanno che oggi quella tassa ignominiosa ha entrate da record. Dall’altro lato della barricata sta la Germania, trincerata su posizioni oltranziste, sistematicamente anti-nucleare e che accelera sulla pervasività del mercato delle quote di emissione di gas serra con un proprio sistema complementare. Obiettivo più o meno dichiarato: armonizzare a livello europeo, in un prossimo futuro, il mercato interno delle quote su settori delicati come quello del trasporto e del riscaldamento. Una specie di cavallo di Troia del Green Deal, che preme per dirottare in senso ortodosso il disegno europeo per una neutralità climatica.

In politica, come si sa, il tempismo si crea. Se infuria la battaglia politica, e la volatilità dei prezzi incute timore, il rischio è quello di perdere il senso della prospettiva. Rischio paventato dalla Commissione europea, per la quale invece il disegno a lungo – lunghissimo – termine è tutto. Il sistema ETS (Emission Trading System) viene da lontanissimo, e vale la pena di soffermarsi a comprenderne il senso, se non vogliamo che le congiunture, e le loro narrazioni, ci facciano perdere l’orientamento.

Il sistema ETS in breve

Per capire da dove viene l’idea di fissare un prezzo all’inquinamento da gas serra, dobbiamo tornare indietro alla COP3 – oggi siamo a 26, per intenderci. Era l’11 dicembre 1997, in Giappone: veniva pubblicato il famoso protocollo di Kyoto, esito di tese negoziazioni, che avrebbe orientato l’agenda geopolitica climatica per i decenni a venire. Entrato in vigore finalmente nel 2006, fu preso in parola dall’Unione Europea, che diede realtà alla constatazione che l’inquinamento è il prezzo da pagare per le attività economiche. L’idea resta affascinante: creare un mercato dell’inquinamento, lasciando all’equilibrio tra domanda e offerta il compito di regolare la decrescita delle emissioni. Ogni produttore coinvolto possiede una quota di gas serra che è autorizzato a emettere. L’ammontare di questa quota può inizialmente essere fissato da stime di previsione: se, alla fine della distribuzione, il produttore capisce col tempo di avere troppe quote, o troppo poche, può venderle, o comprarle. L’emissione di quote non pagate è pesantemente sanzionata.

Una “mano invisibile”… sul mercato

Si capisce che, come tutto ciò che riguarda l’economia e la finanza, fissare tetti e tassi è un lavoro di orologeria che non si può sbagliare, ed è per questo che il sistema ETS è stato articolato in fasi successive, caratterizzate da aggiustamenti che tenessero conto dell’evoluzione della realtà economica e finanziaria europea e mondiale. Un ruolo chiave è giocato dal tetto massimo di emissioni, che sono un bene, come tutti i beni, finito. La quantità di gas inquinanti che i soggetti messi insieme possono emettere è limitata, e si riduce di anno in anno. La riduzione progressiva abbassa l’offerta e spinge la domanda ad adeguarsi, in un modo o nell’altro. Per la fatidica quarta fase del sistema ETS (2021-2030), si era pensato, nel 2018, di accelerare la riduzione del tetto a un 2.2% annuo, con l’obiettivo di ridurre le emissioni del 40% nel 2030 rispetto al 1990. Obiettivo reso ancora più ambizioso dall’attuale Commissione, che spinge per il 55%.

Come fare per spingere la domanda ad adeguarsi? Il programma NER 300 dal 2012 investe le entrate delle vendite di emissioni in progetti per le tecnologie innovative a bassa emissione di carbonio. Ma il Covid ha salutato una nuova era della spesa comunitaria: in un’epoca in cui tutti spendono di più, la Commissione Europea è più ambiziosa e programma specifici meccanismi di finanziamento, il Fondo per l’Innovazione e il Fondo per la Modernizzazione. Per riconvertire il sistema ETS in programmi di rinnovamento dei meccanismi di produzione, il sistema ETS ha progressivamente privilegiato le assegnazioni delle quote, inizialmente gratuite, tramite messe all’asta. Questo ha il doppio vantaggio di fornire delle entrate e di orientare il prezzo delle emissioni in base al mercato. Il secondo punto, indirettamente legato al primo, resta quello della conversione energetica. Emettere meno significa produrre allo stesso modo, ma in modo più sostenibile: usando fonti energetiche “pulite”.

Una storia di successo

Il sistema ETS sembra in ogni caso funzionare, determinando consistenti riduzioni delle emissioni nei settori coinvolti. Malgrado le difficoltà, l’Unione Europea continua a proporsi al mondo come il continente maggiormente impegnato all’osservanza dei paletti fissati dal Protocollo di Kyoto. È il successo per il raggiungimento dell’obiettivo del 20% al 2020 a iniettare ottimismo nella Commissione Europea, i cui progetti diventano via via sempre più ambiziosi. Ma l’euforia non deve annebbiare la vista di lungo corso su quello che resta un sistema estremamente fragile e che va maneggiato con cura.

Non può andare tutto sempre bene

Che succede infatti se la domanda non riesce ad adeguarsi? In questo interrogativo sta il successo o il fallimento del progetto. Le difficoltà di orientare il mercato aveva spinto i teorici a privilegiare un meccanismo di semplice tassazione delle emissioni, come era stato fatto già dai Paesi Scandinavi e dal Regno Unito in tempi non sospetti e come ancora molti Stati nel mondo – fuori dall’Europa, tra gli altri, Giappone, Sud Africa, Argentina, Messico – fanno oggi. Ma quando le cose si mettono male, in un mercato ETS, due sono gli scenari possibili: o il prezzo delle emissioni esplode, con gravi ripercussioni sull’economia – e sulle bollette –, o chi può scappa. Questo secondo scenario ha un nome ben preciso e si chiama Carbon Leakage o trasferimento delle emissioni. Riguarda una specifica categoria, quella dei grandi produttori che intrattengono relazioni extracomunitarie consistenti. Un occhio di riguardo va a questo tipo di soggetti, per i quali ancora in questa fase è prevista un’assegnazione gratuita delle quote.

Il problema delle relazioni con quelle parti di mondo dove le emissioni sono gratis o a buon mercato resta un altro nodo da sciogliere. Oltre a far venir voglia di produrre altrove, i costi ridotti svantaggiano i nostri produttori sulla scena internazionale. Per questo motivo l’UE ha accompagnato il sistema ETS con accordi per armonizzare le tariffazioni del CO2 che hanno preso a nascere nel mondo da quel fatidico 2005. Ultimo arrivato il gigante cinese, con il suo timido progetto di un mercato delle quote di emissione, per un numero limitato di settori, è che è già il più grande mercato delle quote al mondo. La proposta di una tassa sul carbonio ai confini dell’Unione ha spaventato non pochi partner commerciali – Russia in testa – e potrebbe presto trasformarsi nell’ennesimo pomo della discordia, in un’epoca dei commerci già segnata da tensioni.

A chi toccherà?

I rischi per i consumatori, già così, restano piuttosto alti. Ma nuovi scenari incombono sul destino energetico degli europei: i cittadini devono pagare per le loro emissioni? Ad oggi, il sistema ETS interessa il 40% delle emissioni comunitarie. Soprattutto, non riguarda trasporti e riscaldamento. L’immediata conseguenza di questa estensione, su cui la Germania preme, sarebbe un combinato di caro benzina e di caro bollette, il cui costo politico e sociale, specialmente in questa fase storica, potrebbe far rompere il giocattolo.

Il futuro climatico dell’Unione Europea avanza a passo di elefante verso un successo tutto sommato altrettanto grande, le cui fondamenta vengono da lontano. Le nostre ambizioni devono però confrontarsi con un’accelerazione senza precedenti, a cui forse le nostre Istituzioni non sono abituate. Sulla loro reattività si misurerà, nei prossimi anni, il successo o il fallimento di quel sogno che è la neutralità climatica europea.

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