La fine del petrolio è una notizia fortemente esagerata. Una conferma ulteriore arriva dal rilascio congiunto delle riserve petrolifere strategiche effettuato da Stati Uniti, Cina, Corea del Sud, Giappone India e Regno Unito, nel tentativo di diminuire il prezzo del greggio.
La scelta, voluta in primis da Biden, rappresenta ad uno sforzo disperato di interrompere una spirale, energetica e inflazionistica, che rischia di travolgere la ripresa economica, in particolare quella americana. La rinnovata stagione pandemica con un nuovo picco di contagi e possibili restrizioni; l’inflazione alta; la crisi delle materie prime; i prezzi dell’energia sono tutti fattori che da tempo rappresentano una grave minaccia ai fragili equilibri globali. In un contesto estremamente precario, il Presidente cerca – in pieno stile democratico – di ottenere “successi” al di fuori del proprio cortile, visti gli affanni (economici ed elettorali) in patria.
Biden vs OPEC+
La mossa di Biden, infatti, si presta ad una duplice lettura: in primo luogo la crescente pressione per alleggerire i prezzi della benzina ai massimi dal 2014 e in aumento del 60% negli ultimi 12 mesi; in secondo luogo, l’inflazione galoppante che sta erodendo gli indici di approvazione dei democratici, non esattamente un buon viatico in vista dell’elezioni di mid-term del 2022.
Da parte degli osservatori, la decisione americana è stata accolta con scetticismo: per Financial Times si rischia di un brutto precedente, lo Strategic Petroleum Reserve (SPR) «è pensato per essere uno strumento di emergenza in grado di sopperire a interruzioni temporanee nell’approvvigionamento dovute a disastri naturali o disastrosi incidenti nei giacimenti petroliferi. Non dovrebbe essere sfruttare semplicemente perché le imprese hanno underinvested sull’energia». Ancora più duro è stato Alberto Clô su Rivista Energia bollando la misura come «improvvida, inutile, controproducente», rivelando una scarsa considerazione per l’andamento della domanda, in un mercato che non conosce «un’insufficiente offerta petrolifera». Infine, per Goldman Sachs il rilascio delle riserve petrolifere rappresenta solo «una goccia nell’oceano» visto che ci sarà un’aggiunta di settanta/ottanta milioni di barili. Un’inezia.
Una strategia confusa
Insomma, la sfida di Biden all’OPEC+, guidato da Arabia Saudita e Russia, non ha trovato il favore dei mercati, ma un ulteriore aumento dei prezzi, oltre ad una gelida accoglienza. In vista del vertice OPEC+ del 2 dicembre in cui si discuteranno i volumi per gennaio 2022, l’iniziativa americana – non una novità assoluta, viste le richieste pressanti degli scorsi mesi – stride con quanto dichiarato nell’ultimo mese – da G20 alla COP 26 – su ambiente, clima e transizione energetica. O per restare nei confini statunitensi, l’incentivo ai combustili fossili mal si concilia con il Piano «Build Back Better», 550 miliardi di dollari in misure su clima ed energia. O, ancora, la presenza della Cina in questa “cordata” petrolifera, rappresenta un apparente paradosso viste le solide alleanze geopolitiche.
La strategia di Biden appare dunque piuttosto confusa e contraddittoria, senza neppure più il sostegno dello shale oil che, come notava Davide Tabarelli, Presidente di Nomisma Energia: «A seguito di ripetuti fallimenti societari, una gran parte della produzione americana è finita in mano alle grandi compagni tradizionali, che sono molto più caute nell’approccio al mercato».
L’amministrazione democratica pur dichiarando di agire per fronteggiare pericoli globali, nella realtà sembra più interessata ai dividendi elettorali interni, ma come dimostra la partita sul gas, i giochi di sponda con altri paesi rischiano di essere pericolosi, oltre che controproducenti.