1. “Il problema è complesso”. Non c’è convegno, riunione, incontro in cui si discuta di rifiuti che non veda ad un certo punto qualcuno pronunciare la sentenza: “Il problema è complesso”. E invece non lo è affatto. Gestire i rifiuti è, anzi sarebbe, molto più semplice di tanti altri problemi. Non stiamo parlando di “rocket science”. Nei Paesi normalmente civilizzati i rifiuti di ogni tipo vengono trattati con tecnologie relativamente semplici, da tempo conosciute, e con altre mano a mano in via di sviluppo, ma sempre perfettamente controllabili e gestibili. Avete mai sentito parlare di “emergenza rifiuti” in qualche altro Paese europeo o in qualche altra parte del mondo sviluppato?
2. Da noi invece il problema e’ effettivamente complesso. Per due ordini di ragioni, ambedue di produzione completamente endogena. La prima è la complessità delle norme messe in campo. Una selva oscura e mal scritta, in cui mette bocca ogni possibile interlocutore istituzionale, dall’Autorità anticorruzione fino al Consiglio di circoscrizione di ogni città, passando naturalmente per Regioni, Comuni, Provincie (!) , Aree Metropolitane, ASL, Ministero dell’Ambiente, Vigli del Fuco, Procure della repubblica, TAR e Consiglio di Stato… Tutto inoltre praticamente inutile perché poi basta il più piccolo comitato che si opponga a questo o a quell’impianto per dovere ricominciare tutto da capo. Risultato: dai 5 ai 10 anni per ottenere l’autorizzazione a realizzare qualsiasi impianto. Non importa se di smaltimento finale o di riciclaggio.
La seconda è il pregiudizio assolutamente ingiustificato nei confronti delle diverse tecnologie che si usano in tutto il mondo. Discariche naturalmente, inceneritori per forza, ma anche e soprattutto impianti che dovrebbero a rigor di logica far parte della cosiddetta economia circolare, quali gli impianti per la produzione di metano dalla frazione umida derivante dalle raccolte differenziate. Ma persino impianti di compostaggio e vari impianti di recupero delle materie prime secondarie. Quelle cioè che, sottoposte a specifici trattamenti, passano da rifiuto a nuova materia prima.
Per questo una parte del Paese è continuamente in emergenza. Appena finisce da una parte, Napoli per esempio, ricomincia da un’altra, Roma tanto per dirne una. E se le emergenze non sono di più è semplicemente perché molte Regioni e Città risolvono il loro problema in maniera molto semplice . Spedendo i propri rifiuti in altri siti italiani ed esteri. Eppure non sarebbe difficile. Milano visse un paio di decenni or sono una crisi importante. Oggi quella città e la Lombardia, come altre Regioni del Centro-Nord , sono considerate realtà da imitare, gestiscono i loro rifiuti in modo ordinato, applicano tariffe relativamente basse e sono all’avanguardia per le percentuali di materiali riciclati.
Cosa hanno fatto? Due cose. Si sono guardati in giro fuori dall’Italia per fare come fanno le nazioni migliori e hanno realizzato gli impianti necessari. Fine.
3. Ma il mondo dei rifiuti anziché essere considerato un normale settore industriale, che tratta e lavora un materiale non particolarmente complicato, se non per qualche frazione, viene rappresentato come un insieme di loschi traffici, che mina la salute pubblica.
Eppure dovrebbe essere facile capire che il traffico clandestino di rifiuti, con relativi capannoni che vanno a fuoco, è solo il risultato di tre cose: impianti legali che mancano, prezzi di conseguenza assai alti, burocrazia. Caratteristiche che in qualsiasi settore creano inevitabilmente un mercato parallelo, illegale e difficile da controllare. Che penalizza le imprese in regola.
4. Ora la parola d’ordine è “economia circolare”, secondo le efficaci disposizioni dell’Unione Europea. In parole semplici: cercare di trasformare la maggior parte possibile di potenziali rifiuti in nuovi materiali da reimmettere nel ciclo produttivo. E con uno sforzo a monte per ridurre la quantità di rifiuti prodotti. L’Italia conosce da decenni l’economia del riciclo e del riuso. Solo per fare un esempio, buona parte dell’industria siderurgica è nata nel dopoguerra dalla raccolta degli scarti ferrosi.
Ma la quantità di rifiuti è andata crescendo con lo sviluppo dell’economia. Le società povere non conoscono i rifiuti e si può tranquillamente affermare che la quantità di rifiuti prodotti è una variabile dipendente della crescita economica. Più un paese è ricco, più potenziali rifiuti produce. E le recessioni economiche sono leggibili anche dalla minore quantità di rifiuti prodotti. Un Paese come la Germania ha, per esempio, una produzione di rifiuti procapite di un buon 20% superiore a quella dell’Italia. Uno degli obbiettivi che si pone l’economia circolare è quello di cercare di disaccoppiare questa relazione. Avere crescita economica senza aumento di rifiuti. Sia producendone di meno, sia riutilizzando quelli prodotti. Naturalmente vi è un limite , dettato dalle leggi della fisica e della termodinamica, al continuo riuso di un materiale. Ad ogni passaggio si perde una parte della struttura e dell’informazione contenuta nella materia prima originaria. Una carta riciclata è più povera di una carta vergine e una carta riciclata più volte diviene inservibile.
Per questo l’ UE si pone l’ obbiettivo al 2035 di arrivare a riciclare il 65% dei rifiuti prodotti. Di ridurre il ricorso alla discarica, considerata la forma più povera di smaltimento, al 10% e riservando una quota del 25% alla combustione.
5. Tutto questo implica una trasformazione profonda del modo di concepire e trattare tutta la questione rifiuti. Che non è più solo o prevalentemente un problema ambientale, ma è invece soprattutto un problema industriale.
Vale a dire che dovranno essere rafforzate tutte quelle filiere industriali e tecnologiche in grado di reimmettere gli scarti delle lavorazioni e dei consumi civili all’interno dei processi produttivi. L’esatto contrario dell’approccio repressivo fin qui seguito e ancora ampiamente in auge presso Il Ministero dell’Ambiente, perfettamente allineato ad un’ideologia ambientale giustizialista.
6. L’Italia non parte da zero. Il Nord, soprattutto, vede al lavoro alcuni distretti del riciclo fra i più avanzati d’Europa. Frutto di una cultura industriale da sempre abituata a fare i conti con la scarsità di materie prime. E, come ripete spesso il Presidente di Legambiente, perseguire l’obbiettivo di zero rifiuti significa realizzare centinaia di impianti che chiudano il ciclo rigenerando i rifiuti. Cambia la definizione giuridica di rifiuto. Non più ciò che si vuole abbandonare, ma ciò che si vuole riutilizzare come nuova materia prima.
Ma intanto, si dice, continua il traffico illegale di rifiuti. Continuano ad andare a fuoco i capannoni che stoccano illegalmente varie tipologie di rifiuti. E quindi la palla torna nella mani delle polizie ambientali. Certo, fino a quando non si capisce una volta per tutte che è proprio la mancanza di impianti legali unita agli alti prezzi di quelli legali, come conseguenza di questa assenza, a rendere proficuo il mercato illegale. Stroncare l’illegalità è semplice. Basta realizzare un’offerta adeguata di impianti legali a prezzi contenuti. Anche l’esportazione di rifiuti sia urbani che speciali, crea 3,5 milioni di tonnellate con cui arricchiamo le industrie d’Europa (famosa la frase di quel Sindaco di una città olandese che a proposito del termocombustore che accoglieva rifiuti italiani ebbe a dire “Quest’anno ci faremo alcune centinaia di migliaia di docce a spese degli italiani”) sono la conseguenza di una dotazione impiantistica nazionale inadeguata e di alti costi. Spostare quote crescenti di rifiuti dallo “smaltimento“ al recupero significa mettere in condizioni le imprese di farlo agevolmente. Per questo serve una buona normativa “end of waste”, rifiuti che perdono la qualifica di rifiuti proprio perché riutilizzabili. Altrimenti saranno sempre preferite le materie prime vergini.
6. Naturalmente c’e’ anche un’adeguata attività di controlli da mantenere e rafforzare. “Buttar via“ i rifiuti è sempre meno costoso che trattarli in qualsiasi modo e questa tentazione va repressa e punita. Ma non è il cuore del problema. Tutte le emergenze che abbiamo avuto in Italia, da Napoli a Roma, sono state e sono la conseguenza di una carente dotazione impiantistica.
7. Ma di quali impianti abbiamo bisogno? Il concetto di economia circolare coinvolge tutta l’attività produttiva ed intere filiere industriali: la carta, il legno, la metallurgia, l’elettronica, il tessile. Lungo tutte queste filiere occorre la capacità di incentivare le chiusure dei cicli produttivi progettando sin dall’inizio il riutilizzo dei materiali originari una volta finita la funzione degli oggetti prodotti. Ma poi alla fine rimane una consistente quota di materiali, sia di derivazione urbana che civile, di cui occorre prendersi cura, in modo da avviarli o a un’ulteriore fase di riciclo o ad uno smaltimento definitivo in condizioni di sicurezza.
Tutte le diverse categorie di impianti servono a questo scopo ed è incomprensibile la guerra fra diverse tecnologie che, secondo la buona tradizione italiana, affligge anche questo settore. Non c’è dubbio per esempio che serva un certa capacità in discarica per stoccare quella quota di rifiuti arrivata a fine corsa o non più riciclabile. Anche qui non mancano i paradossi. Quale per esempio la pretesa di togliere l’amianto da ogni dove senza sapere dove metterlo.
Poi serve anche un certo numero di termocombustori o inceneritori se si preferisce il termine più prosaico. Non solo perché in molti casi devono a tutti gli effetti essere considerati come un pezzo di economia circolare, visto che da essi è possibile recuperare energia e calore. Brescia teleriscalda un pezzo di città, grazie al suo impianto di incenerimento, dando un contributo netto alla riduzione di inquinamento e CO2. Poi servono impianti per il trattamento delle diverse frazioni provenienti dalla raccolta differenziata. È solo il caso di ricordare che raccogliere i rifiuti in modo differenziato non significa avere esaurito il compito. Questi materiali poi vanno utilizzati. Altrimenti si casca nel caso di Roma, dove i risultati della raccolta differenziata prendono la strada verso gli impianti del Nord Italia. Quale sia il bilancio ambientale comparato fra raccogliere i rifiuti in modo differenziato e spedirli ogni giorno con più di 150 camion di stazza notevole per 1500 km lascio immaginare.
In particolare la frazione umida, la più consistente, circa il 40% del totale dei rifiuti urbani, ha bisogno di impianti di compostaggio, meglio se associati all’estrazione di biogas e di gas metano. Secondo i calcoli di Assoambiente mancano all’appello rispetto agli obbiettivi fissati dalla Direttiva Europea almeno alcune decine di impianti, prevalentemente nel Centro-Sud.
8. Per tutto questo sarebbe necessaria una strategia nazionale. Non un insieme di leggi proibitive e fondamentalmente costruite con prevalenti intenti punitivi. Ma piuttosto: a) la scelta di obiettivi scanditi nel tempo in modo ragionevole per quanto riguarda raccolte differenziate e quantità da riciclare; b) porsi l’obbiettivo di una completa autosufficienza nazionale; c) l’individuazione delle opportune filiere tecnologiche; d) un sistema di incentivi e disincentivi che premino le realtà virtuose; e) un assetto regolatorio che spinga gli investimenti remunerandoli quanto necessario; f) un largo ricorso al mercato e all’iniziativa privata; g) una governance Stato-Regioni che coordini e obblighi al rispetto di obbiettivi dati; h) una normativa “end of waste” semplice ed efficace.
La cabina di comando per tutto questo è nelle mani fondamentalmente del Ministero dell’Ambiente. Che sembra però diventato la cabina di regia delle proteste locali e dei pregiudizi tecnologici di una quota minoritaria del mondo ambientalista, anziché l’organizzatore di politiche attive capaci di dare al nostro Paese un assetto stabile e non dettato dalle emergenze. Senza attardarsi in iniziative demagogiche che seguono gli umori dell’opinione pubblica , anziché dettare agenda e priorità. Abbiamo appreso per esempio che Il Ministero sarebbe stato reso “plastic free”. Immagino siano stati quindi eliminati (dove?) computer, stampanti, fotocopiatrici, biro e molte scrivanie.
È per altro singolare che trattandosi di attività economiche essenziali e con spiccate caratteristiche industriali e tecnologiche, il Ministero dello Sviluppo economico sia completamente privo di competenze in merito. Il che ribadisce quanto già detto. La questione rifiuti , anche nell’assetto istituzionale, viene percepita e organizzata esclusivamente come un problema ambientale. Mai come una potenziale filiera industriale. Vizio per altro comune ad una certa quota di ambientalismo radicale che sposa insieme presunte battaglie ambientaliste e molti pregiudizi antindustriali, rendendo di fatto impossibile ogni soluzione.
Se non si fa questo salto di qualità l’economia circolare resterà una pia illusione. Un placebo per coscienze inquiete e mai capaci di decidere.
di Chicco Testa