“Oggi centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo hanno marciato per il clima, inviando un chiaro segnale a chi è al potere alla #COP26 di proteggere le persone e il pianeta. I nostri cosiddetti “leader” non stanno guidando – QUESTO è ciò che significa leadership!“

È così che Greta Thunberg esordisce su Twitter questo sabato 6 novembre, all’indomani di un Friday for Future più importante degli altri, in quanto avvenuto durante la COP26.
Da Parigi a Sydney, passando per Londra, Nairobi e il Messico, sono più di 200 gli eventi dei movimenti per l’ambiente. A Glasgow forse il corteo più impressionante: 200mila i giovani attivisti che, per le strade della città scozzese, hanno chiesto ai paesi un’azione più concreta contro la crisi climatica. Tutto ciò mentre i capi o rappresentanti di governo di 197 paesi erano proprio lì, a Glasgow, a parlare di clima, allo Scottish Event Campus.
Il discorso delle portavoce del movimento, come Greta, o Vanessa Nakate, è sempre lo stesso: i leader fanno solo “bla bla bla”, le parole non sono accompagnate dai fatti, basta con questi vertici senza significato, servono azioni concrete. Ma anche questi slogan , queste affermazioni, battaglie di – certo – grande impatto mediatico, ma che alla lunga possono stancare; se non altro perché, anche loro, in fin dei conti, di concreto hanno ben poco.
Più facile a dirsi che a farsi
Non si può dire che la gestione del cambiamento climatico non sia al centro dell’agenda europea e internazionale, ma evidentemente ci sono alcune complicazioni da considerare, che forse Greta, Vanessa, chi sfila ai Fridays For Future, ma non siede ai tavoli decisionali, non possono considerare nel loro insieme.
Gli esperti di clima e transizione energetica, primo della fila l’attuale Ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani, affermano infatti che il Green Deal europeo, che ha l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas nocivi del 55% entro il 2030 e azzerarle entro il 2050, non sarà una passeggiata.
Il pacchetto di misure varate da Bruxelles che prendono il nome di “Fit for 55” (nell’ottica, appunto, di riduzione delle emissioni entro il 2030) riguardano numerosi settori: oltre all’industria e all’energia, anche agricoltura, rifiuti, importazioni da paesi terzi e soprattutto trasporti: automobili, treni, aerei, navi. Tra le principali restrizioni, il sistema di scambio di quote di emissione (Ets) secondo il principio “chi inquina di più paga di più”, l’istituzione della “carbon tax” alle frontiere europee per chi non rispetta gli standard ambientali dell’Ue, la proposta di fissare una data definitiva (2035?) entro la quale l’immissione sul mercato di motori diesel o benzina non sarà più possibile. In questi giorni, alla COP26, i leader del mondo stanno discutendo la riaffermazione dell’obiettivo «di mantenere l’incremento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C e di mettere in atto gli sforzi necessari per limitarlo a 1.5°C al di sopra dei livelli pre-industriali».
Questi obiettivi da raggiungere, giusti, comportano però delle difficoltà che i governi devono gestire: aumenti trimestrali considerevoli delle bollette di luce (+45%) e gas (+30%), diversi settori dell’economia in difficoltà, che devono ripensare la loro offerta o il loro modello di business (penso soprattutto all’auto, specie la componentistica, ai trasporti su strada, treni esclusi, alla meccanica di vecchio tipo, ai colossi oil & gas che non riusciranno a trovare un nuovo mix energetico, al trasporto aereo, low cost compreso, a causa del forte rincaro dei combustibili fossili), costi sociali durissimi per la perdita di migliaia di posti di lavoro.
Uno studio di Boston Consulting sui settori meno green di Confindustria (siderurgia, chimica, fonderie, carta, vetro, cemento, ceramica), ha stimato che il prezzo da pagare per restare sostenibili sarà pari a 15 miliardi di euro in dieci anni, a fronte di un fatturato delle aziende pari a 88 miliardi di euro. Un costo enorme, che impone ai governi di predisporre un’agenda della transizione industriale che ne tenga conto. Il gioco vale sicuramente la candela, in quanto si prevede che il percorso di transizione abbia un impatto positivo sul PIL di circa 10 miliardi fino al 2030, ma la strada è tortuosa e non sempre facile da gestire.
Interpretiamo il messaggio di Greta
Il messaggio di Greta e della New Gen è un messaggio di protesta molto forte. Un messaggio che contribuisce a parlare della questione climatica sempre di più, ed è proprio questo il loro obiettivo. Alcuni diranno “proprio loro che parlano di concretezza, non propongono nulla”. Forse, ma non è Greta, non è la generazione dei Millennials, ad avere il compito – per ora – di portare soluzioni concrete.
Non sono loro a partecipare ai tavoli decisionali, non ancora. Ma chiedono più risposte. E allora perché non dargliele? Ci vorrebbe una maggiore condivisione con i giovani, che giustamente hanno a cuore la causa, di quelle che sono le difficoltà, i costi, le lentezze, per certi aspetti, della gestione della transizione climatica. Attraverso campagne di sensibilizzazione che si rivolgano alle scuole, alle comunità di giovani del mondo. Perché capiscano che è una priorità, ma va affrontata considerando tutte le ipotesi del caso.
E in un secondo momento poi, a fronte anche di una maggiore preparazione, perché no, coinvolgerli più attivamente, dentro le stanze, oltre che limitarsi ad ascoltarli protestare per le strade delle città. Il confronto intergenerazionale è una risorsa, che può permettere ai leader di avere maggiore consapevolezza di quali sono le esigenze di questa “nuova generazione”, che lascia trasparire paura e preoccupazione per il proprio futuro.
Alla fine della storia, sarà Greta (qualsiasi cosa si possa pensare, nello specifico, dell’attivista svedese), saranno i Millennials e la Generazione Z a vivere nel mondo di domani.