sabato, 23 Settembre 2023

Se Guardia di Finanza non fa rima con gravidanza: sull’esclusione dal reclutamento in GdF della concorrente in dolce attesa

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Diotima Pagano
Laureata in giurisprudenza. Fortemente convinta che il diritto sia (anche) fantasia, creatività, interpretazione e molto spesso filosofia. Amante della Vespe e della musica in vinile. Il suo motto è "...Things To Come..."

Nota a sentenza del Consiglio di Stato del 24 dicembre 2021 – n. 8578

Se Papa Francesco lancia un sentito appello contro “l’inverno demografico”, la Giustizia Amministrativa non è – laicamente – da meno.

Chiamato, infatti, a decidere sulla esclusione di una candidata da una procedura concorsuale per l’arruolamento presso la Guardia di Finanza, il Consiglio di Stato ha affermato che se, in tesi, la tutela della situazione soggettiva di una candidata in stato di gravidanza non può ragionevolmente costituire e determinare un detrimento per la posizione giuridica soggettiva degli altri candidati e l’interesse dell’Amministrazione a definire la procedura selettiva entro termini ragionevolmente contenuti al fine di colmare le vacanze organiche (art. 97 Cost.), la stessa circostanza, tuttavia, per il giudice amministrativo di appello, «non è idonea a giustificare il sacrificio definitivo della prima mediante l’esclusione dal concorso, ma impone il giusto bilanciamento dei contrapposti interessi, in quanto espressione di diritti aventi pari dignità costituzionale».

In altri termini, nel difficile e carsico cammino della tendenziale e faticosa simmetria fra Pubblici Poteri e cittadino (non più suddito), la forza propulsiva dei diritti fondamentali assegna un punto qualificante a quest’ultimo (qui necessariamente declinato al femminile), atteso che non è (più) affermabile, solo e sempre, la primazia organizzatoria della Pubblica Amministrazione, ma quest’ultima deve contemperare le sue esigenze (anche nell’avviare e gestire la complessa macchina concorsuale per la provvista di personale), con quelle (è il caso di dire) “vitali”, di una candidata in stato interessante.

Afferma la sentenza: «l’esclusione definitiva della candidata in stato di gravidanza contrasta frontalmente sia con il quadro normativo di riferimento che con i principi elaborati sul punto dalla giurisprudenza, entrambi volti ad evitare ogni forma di discriminazione fondata sul sesso e a garantire la parità di trattamento tra uomo e donna anche con riferimento all’accesso al lavoro».

Si arriva così al “cuore della questione”: il carattere discriminatorio di una esclusione siffatta.

Anticipando la conclusione, per il superiore giudice amministrativo, l’uguaglianza sostanziale tra i candidati, senza distinzione di genere sarebbe frustrata in via definitiva se lo stato di gravidanza si trasformasse da impedimento temporaneo all’accertamento a causa definitiva di esclusione.

Se è vulnerata l’uguaglianza, si apre la strada alla discriminazione: il rifiuto d’assunzione per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne e rappresenta, quindi, una discriminazione diretta a motivo del sesso (sent. 8 novembre 1990, Dekker, C-177/88, punto 12).

Sul piano analitico, a conferma del suo assunto, il Consiglio di Stato (CdS) passa in proficua rassegna la normativa rilevante, così differenziata.

Norme internazionali

Sul piano sovranazionale, viene in rilievo, in primo luogo, la Convenzione ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva dall’Italia con l. 14 marzo 1985, n. 132 che, all’art 11, sancisce «Gli Stati parte si impegnano a prendere ogni misura adeguata al fine di eliminare la discriminazione nei confronti della donna nel campo dell’impiego ed assicurare, sulla base della parità tra uomo e donna, gli stessi diritti», e «per prevenire la discriminazione nei confronti delle donne a causa del loro matrimonio o della loro maternità e garantire il loro diritto effettivo al lavoro, gli Stati parte si impegnano a prendere misure appropriate tendenti a: (…) d) assicurare una protezione speciale alle donne incinte per le quali è stato dimostrato che il lavoro è nocivo».

Norme comunitarie

In ambito comunitario, è richiamato l’art 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ove dispone che «la parità fra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione», mentre l’art 157 (ex art 141 del TCE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede, al comma 1, che «Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore” e, al comma 3, che «Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adottano misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore».

Come osserva il Consiglio di Stato, la disposizione da ultimo citata ha costituito la base normativa per l’adozione della direttiva 76/207/CEE del Consiglio del 9 febbraio 1976, nonché della più recente direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006, relative all’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego.

In particolare, l’art. 2, comma 3, lett. c) della direttiva n. 2006/54/CE, riprendendo quanto già previsto dall’art 2 comma 7 della direttiva 76/207/CEE, precisa che «ai fini della presente direttiva, la discriminazione comprende: (…) qualsiasi trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva 92/85/CEE». L’art 14 dispone, altresì, che «è vietata qualsiasi discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto attiene: a) alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione». Infine, il ventitreesimo considerando della medesima direttiva sancisce che «Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta chiaramente che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso. Pertanto, occorre includere esplicitamente tale trattamento nella presente direttiva».

Le pronunce della Corte di Giustizia

Non meno pertinenti sono le citazioni tratte dalla giurisprudenza europea.

La Corte di Giustizia, – afferma il CdS – nel qualificare come discriminazione diretta fondata sul sesso tanto il rifiuto di assumere una donna a causa del suo stato di gravidanza quanto il licenziamento di una lavoratrice per la medesima ragione (sent. 8 novembre 1990, Dekker, C-177/88 e Handels- og Kontorfunktionaerernes Forbund, C-179/88; sent. del 4 ottobre 2001, Jiménez Melgar, C-438/99 e Tele Danmark A/S, C-109/00, nonchè sent. 30 giugno 1998, Brown, C-394/96), ha distinto il caso della lavoratrice che si trova in stato di gravidanza da quella che versi in stato di malattia che sopraggiunga dopo il congedo di maternità, osservando che «Un tale stato patologico rientra quindi nel regime generale applicabile alle ipotesi di malattia. Infatti, i lavoratori di sesso femminile e maschile sono del pari esposti alle malattie. Anche se è vero che taluni disturbi sono specifici dell’uno o dell’altro sesso, l’unico problema è quindi quello di sapere se una donna viene licenziata per le assenze dovute a malattia nelle stesse condizioni di un uomo; se per entrambi valgono le stesse condizioni non vi è discriminazione diretta in ragione del sesso» (sent. Handels- og Kontorfunktionaerernes Forbund, C-179/88, punti 16 e 17). La Corte ha, altresì, chiarito che «lo stato di gravidanza non è in alcun modo assimilabile ad uno stato patologico, a fortiori a un’indisponibilità non derivante da ragioni di salute, situazioni che invece possono motivare il licenziamento di una donna senza che per questo tale licenziamento sia discriminatorio in base al sesso».

La Costituzione e la legislazione ordinaria

Non meno “gravide” di rilievo sono le norme direttamente ricavabili dalla Costituzione e dalla legislazione ordinaria.

Vanno richiamati (afferma il CdS) gli artt. 3 e 51 Cost.; altresì l’art 4 Cost. («la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto»), l’art. 31 Cost. che qualifica compito della Repubblica l’agevolazione della formazione della famiglia e la protezione della maternità, e l’art. 37 Cost. che impone la fissazione di condizioni di lavoro per la donna compatibili con l’adempimento della sua funzione familiare.

Il legislatore ordinario, nel suo proprio ambito, ha dato attuazione ai precetti costituzionali, statuendo che «la parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione» (art. 1, comma 2, d.lgs 11 aprile 2006, n. 198 il c.d. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna).

La Corte Costituzionale

In sintonia, è la Consulta, la quale ha sancito che «il principio posto dall’art. 37 – collegato al principio di uguaglianza – impone alla legge di impedire che possano, dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino, derivare conseguenze negative e discriminatorie. Entrambe queste esigenze impongono, per lo stato di gravidanza e puerperio, di adottare misure legislative dirette non soltanto alla conservazione dell’impiego, ma anche ad evitare che nel relativo periodo di tempo intervengano, in relazione al rapporto di lavoro, comportamenti che possano turbare ingiustificatamente la condizione della donna ed alterare il suo equilibrio psico-fisico, con serie ripercussioni sulla gestazione o, successivamente, sullo sviluppo del bambino».

L’epilogo decisorio

Chiara ed obbligata, per il CdS, la conclusione: l’impianto normativo, sia nazionale che sovranazionale, è univoco nell’escludere che lo stato di gravidanza possa rappresentare un ostacolo nell’accesso al lavoro o fonte di discriminazione nell’ambito del rapporto lavorativo.

Per tale ragione, -nel caso in esame- il DM 17/05/2000, n. 155 (Regolamento recante norme per l’accertamento dell’idoneità al servizio nella Guardia di finanza) non può che essere letto alla luce delle coordinate sopra richiamate, in quanto volto a garantire l’uguaglianza sostanziale dei candidati che aspirano all’arruolamento in Guardia di Finanza e ad evitare che la gravidanza, di per sé, possa costituire una causa di esclusione dal concorso, e, quindi, fonte di una discriminazione diretta fondata sul sesso, la cui eliminazione si impone come un obiettivo multilivello.

L’uguaglianza sostanziale tra i candidati, senza distinzione di genere (chiude il discorso il CdS richiamando, ancora una volta la CGUE) sarebbe frustrata in via definitiva se lo stato di gravidanza si trasformasse da impedimento temporaneo all’accertamento a causa definitiva di esclusione.

Secondo la Corte di Giustizia, il rifiuto d’assunzione per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne e rappresenta, quindi, una discriminazione diretta a motivo del sesso (sent. 8 novembre 1990, Dekker, C-177/88, punto 12).

Articolo a cura di Diotima Pagano

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