Il ritorno di Google in Cina accende il dibattito dell’opinione pubblica su alcuni dei temi più caldi degli ultimi anni: la liberta di informazione su Internet. Il New York Times ha pubblicato, lo scorso 17 agosto, la lettera di protesta firmata da 1400 dipendenti del colosso di Mountain View contro l’iniziativa della società di realizzare una versione del motore di ricerca per la Cina, meglio nota con il nome di “Dragonfly”. Stando al testo della lettera, il fine è “prendere decisioni eticamente informate sul nostro lavoro, i nostri progetti e il nostro impiego”. Google ha 700 dipendenti in Cina, ma il numero potrebbe a breve salire notevolmente.
Il nuovo Google cinese
Progettato per dispositivi android, il Google versione cinese, i cui lavori sono già in fase avanzata, si dovrebbe caratterizzare per la rimozione di contenuti sensibili per il Partito comunista (come ad esempio le informazioni su dissidenti politici) e, allo stesso tempo, per la tracciabilità delle ricerche. Le stesse motivazioni, insomma, che otto anni fa avevano spinto proprio Big G lontano dalla Cina. Inoltre, l’archiviazione dei dati dovrebbe avvenire sui server cinesi, “potenzialmente” accessibili dalle autorità locali. Di qui il rischio maggiore: la possibilità di utilizzare quelle informazioni esponendo al rischio di interrogazioni e detenzioni tutti coloro che effettuano ricerche vietate da Pechino. Google dovrebbe operare attraverso una società cinese controllata in parte dal governo, e per questo in grado di aggiornare costantemente le “Black list” degli utenti “nocivi”.
Perché c’è una percezione ostile nell’opinione pubblica e nella politica?
La policy del gigante californiano si è da sempre contraddistinta per una pervasività totale in nome di libertà e progresso, e non è tollerabile che operi in un mercato caratterizzato dalla censura. Sembrerebbe questa la reale motivazione alla base della protesta dei dipendenti. E non si tratta della prima volta che avviene una reazione interna di questa portata. Big G ha dovuto infatti affrontare spesso malumori interni, e sempre per questioni etiche. Per restare ai tempi più recenti, in seguito alla stipula di un contratto con il Pentagono (ne abbiamo già parlato qui) nell’ambito del c.d. Progetto Maven 3000 dipendenti hanno firmato una petizione diretta a contrastare lo sviluppo di un’intelligenza artificiale capace di analizzare le riprese dei droni per conto del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Tale è stato l’eco del movimento di dissenso che la società ha dovuto smentire un suo impegno nella costruzione di armi attraverso una nota ufficiale dell’amministratore delegato Sundar Pichai. Il discorso potrebbe tuttavia essere qui allargato all’opinione pubblica, nonché alla politica (dato che ben sedici legislatori americani hanno espresso ufficialmente le loro preoccupazioni). La nomofobia, ossia la paura di restare senza connessione, si accompagna oggi sempre più alla presa di coscienza che sia qualcun altro a gestire le proprie informazioni in uscita, selezionandone il contenuto e distorcendone la memoria. Non si tratta infatti di restare chiusi nel proprio mondo, ma anche e soprattutto di proiettarsi liberamente sul web attraverso le proprie idee, critiche e opinioni. A questo presupposto ne va aggiunto un altro. Il business infatti, cambia l’interpretazione dei codici etici delle aziende ad una velocità maggiore dell’etica di coloro che quelle aziende le vivono quotidianamente e, anzi, ne sono le colonne portanti. È inevitabile. Ma è proprio la ricerca di business (e/o di supremazia militare) che, insieme alla cultura, ci ha fatto arrivare fin qui. E chissà fin dove potrà spingerci in futuro. Nella storia dell’uomo ogni cambiamento – pur inarrestabile – è stato accompagnato da sentimenti di diffidenza e chiusura. Almeno in un primo momento. È quanto sta avvenendo oggi nel passaggio dalla terza alla quarta rivoluzione industriale. Ecco dunque il paradosso: da una parte, la Cina che tenta di bloccare informazioni che, prima o poi, circoleranno lo stesso; dall’altra parte, i titolari di quelle informazioni sperano ancora di mantenerne saldo il controllo, sulla base di una scelta prettamente personale, sia in entrata che in uscita.
La guerra tecnologia tra Usa e Cina: il dominio dei Big Data
La realtà è dunque chiara: le informazioni in Cina non circolano alla pari di quanto avviene nei paesi occidentali. Ma per quanto ancora? Nel futuro (più prossimo che remoto) “Villaggio globale” sarà mai possibile restare con un piede dentro e uno fuori? Si tratta infatti di un paradosso, in quanto nell’era dei “Big Data” – che insieme alla bassa latenza sono il principale presupposto dell’IoT (c.d. “Internet of things”, fenomeno che identifica la connessione degli oggetti alla stregua di smartphone e pc) – non c’è alcuna possibilità di vivere isolati. Questa volta però la questione sembrerebbe diversa e, dunque, dovrebbe essere affrontata da un’altra prospettiva, avvalorandosi di elementi ulteriori che, a ben vedere, non coinvolgono soltanto la singola compagnia, bensì sono parte della guerra tecnologica in atto per il primato tra Usa e Cina sul dominio dei Big Data. Si comprendono cosi le politiche di LinkedIn e Facebook (anche se quest’ultimo ancora in via sperimentale) di rimuovere alcuni post inviati tramite indirizzi IP cinesi. C’è anche un altro aspetto da analizzare. Le politiche cinesi che limitano le informazioni circolanti sul web hanno avuto fino ad ora l’effetto di lasciare crescere indisturbati quei colossi come Alibaba e Tencent, privati della concorrenza di aziende statunitensi nel mercato interno. La scelta di Google va quindi ricercata sì nella possibilità di incrementare il proprio business (sono 800 milioni i cinesi presenti in Internet), ma anche e soprattutto nella possibilità di gestire un volume di dati fino ad ora inimmaginabile. Il governo di Pechino, dal lato suo, è ben disposto ad accogliere Google – cosi come gli altri giganti della Silicon Valley – a patto di mantenerne una sorveglianza costante che gli consenta di condurre la partita il più a lungo possibile.