Nei primi anni Settanta, sulle pagine del quotidiano più diffuso e autorevole del nostro paese – il Corriere della Sera diretto dal sedicente liberale Piero Ottone – Pier Paolo Pasolini aveva ossessivamente reiterato che “la continuità fra fascismo fascista e fascismo democristiano era completa e assoluta” e che il sistema capitalistico era “il più repressivo totalitarismo che ci fosse mai stato” a motivo del fatto che “il potere coatto dei consumi ricreava e deformava la coscienza del popolo italiano fino a una irreversibile degradazione”. Così, mentre la rivoluzione capitalistica – grazie al prodigioso incremento della produttività del lavoro e alla conseguente lievitazione della ricchezza nazionale – faceva uscire milioni di lavoratori dal pantano della miseria più atroce, Pasolini la stigmatizzava come una perversa potenza il cui fine era “la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo”. Donde l’inappellabile sentenza finale, secondo la quale “la società dei consumi aveva realizzato il fascismo”. Solo una parte della società italiana non si era fatta contaminare dalla “corruzione borghese”: il Partito comunista, il quale era “un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumista”.
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