domenica, 04 Giugno 2023

Finanziamento dei partiti politici, divieto del mandato imperativo, “tagliola” sul DDL Zan

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Diotima Pagano
Laureata in giurisprudenza. Fortemente convinta che il diritto sia (anche) fantasia, creatività, interpretazione e molto spesso filosofia. Amante della Vespe e della musica in vinile. Il suo motto è "...Things To Come..."

Note a margine della sentenza della Consulta n. 207 del 29 ottobre 2021

La Consulta, con la sentenza summenzionata, si è espressa in ordine alla detraibilità fiscale delle erogazioni effettuate dai candidati e dagli eletti in favore del partito di riferimento.

I punti salienti possono così riepilogarsi:

1) la garanzia del libero mandato non consente l’instaurazione, in capo ai singoli parlamentari, di vincoli – da qualunque fonte derivino: legislativa, statutaria, negoziale – idonei a incidere giuridicamente sullo status del parlamentare e sulle modalità di svolgimento del mandato elettivo;

2) il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene: nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito;

3) il tenore dell’art. 11, comma 4-bis, del d.l. n. 149 del 2013, come convertito, non consente di evincere alcuna indebita incidenza sullo status del parlamentare, né alcun condizionamento sulle modalità di esercizio del mandato, in lesione del parametro costituzionale invocato.

«Frutto di una discrezionalità legislativa in materia di agevolazioni fiscali, il contenuto direttamente ascrivibile alla disposizione in esame consiste unicamente in una scelta per la parificazione alle donazioni, ai fini della detraibilità, di erogazioni effettuate da candidati e da eletti in favore del partito di riferimento, allo scopo di incentivare le forme dirette di finanziamento della politica, in un contesto segnato dalla eliminazione di ogni contribuzione pubblica ad essa. A stare a quanto effettivamente stabilito nella disposizione censurata, non si determinano perciò effetti di sorta, né sullo status del parlamentare, né sulle modalità di esercizio del mandato, che può e deve continuare ad essere svolto liberamente, in conformità o meno agli indirizzi del partito o gruppo di riferimento».

Quale giuridica conseguenza di tali proposizioni, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 4-bis, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149 (Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 13, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 141, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)».

La tagliola sul DDL Zan

Quanto affermato dalla Consulta offre un singolare (per tempestività) supporto a quanto verificatosi in Parlamento sul disegno di legge sulla omotransfobia.

Come ormai risaputo, il DDL Zan è, infatti, caduto nella “tagliola” del voto segreto.

Una positiva ricaduta, tuttavia, può ottimisticamente trarsi da tale inciampo antidemocratico, incentivando la riflessione, innescata da tale vicenda, sulla legittimità – opportunità del voto segreto per i parlamentari (cfr., i numerosi interventi apparsi sui quotidiani, fra i quali si segnalano quelli di N. Urbinati e G. Merlo).

La risposta al predetto quesito non sembra argomentabile, se non in termini contrari al suo mantenimento: e di tale convincimento, la predetta sentenza della Consulta ci offre un significativamente tempestivo conforto.

Se gli eletti sono tali, quali espressione del Popolo sovrano; se ad essi è demandato di manifestare le loro personali opinioni, protetti dal divieto del mandato imperativo; se il Parlamento è tale in quanto luogo in cui si “parla”, assumendo la responsabilità politica di quanto si afferma e si discute, la soluzione al quesito, non può che essere nel senso abolitivo della segretezza del voto che diviene una sorta di ossimoro, in quanto l’eletto è tale per manifestare liberamente il suo pensiero che, proprio perché espresso in forma pubblica e presidiato da garanzie costituzionali, è libero e non segreto.

Pubblicità e libertà sono in questo caso, simbiotici.

Non può esservi quindi soluzione di continuità fra elezione e manifestazione espressa.

La storia repubblicana registra quindi una significativa evoluzione, ora da completare, col passaggio dalla regola della segretezza, alla sua eccezionalità.

Il frutto prezioso della libertà parlamentare, infine, non va confuso con il richiamo alla coscienza individuale che è garantita dal predetto divieto di mandato imperativo, ora riaffermato dalla Consulta.

L’eletto deve, in conclusione, per rispettare la “delega” popolare, esprimersi pubblicamente, perché la immediata e responsabile identificabilità della sua posizione, è intrinseca al mandato: tanto e, soprattutto, per dare modo agli elettori di sapere se quanto da lui espresso sia sinergico alla volontà popolare che lo ha votato.

Articolo a cura di Diotima Pagano

Per approfondire:

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