Mi informo su Facebook. È una cosa da non dire mai, anche se è vero. Moltissimi uomini e donne – adulti, perché i più giovani preferiscono Instagram o TikTok, almeno in Italia – non aprono siti dei giornali e guardano i contenuti che la home che Facebook propone. Video, condivisioni dalla propria cerchia. La propria home è una bolla. I famosi “algoritmi” di Facebook – ma anche degli altri social – propongono contenuti che piacciono all’utente, sia sulla base di ciò che l’utente clicca o guarda, sia sulla base di un eventuale parere espressamente negativo dell’utente sul suo contenuto. Se dovessi dare retta alla mia home di Facebook, avremmo il 100% dei vaccinati, saremmo tutti a favore dei diritti LGBQ+ e alle elezioni del 2018 avrebbe vinto Potere al Popolo.
La home di Facebook per sua stessa natura propone una visione parziale delle cose. Tendenzialmente, nella nostra cerchia ci sono persone che la pensano come noi, e pubblicano e condividono contenuti in linea con le nostre idee, e le voci discordanti vengono seppellite. Tutto sulla base delle nostre interazioni.
Facebook non è l’Ansa. Se mettiamo like a contenuti di natura complottista, l’algoritmo ci proporrà contenuti complottisti. Facebook, ma anche Instagram, sono tarati sui nostri interessi. Sono contenitori, riempiti da noi.
Il caso Haugen
Stanno facendo notizia le dichiarazioni di un’ex dipendente di Facebook, Frances Haugen, che ha espresso in più occasioni la propria preoccupazione per la linea di condotta di Facebook, a suo avviso riprovevole. «Oggi sono qui perché credo che Facebook danneggi i bambini, alimenti le divisioni e indebolisca la nostra democrazia», ha affermato Haugen durante la sua deposizione al Congresso. Haugen ha anche fatto esplicitamente riferimento all’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021, accusando Facebook di avervi contribuito. Già a marzo 2021 Zuckerberg si difese dalle accuse che additavano la sua piattaforma come responsabile dell’attacco. Richiamando il down di Facebook, Instagram e Whatsapp del 4 ottobre, Haugen ha detto «per più di cinque ore Facebook non è stato utilizzato per aumentare le divisioni, destabilizzare le democrazie e far sentire male le ragazze e le donne per il proprio corpo».
Haugen inoltre ritiene insufficienti le modifiche ai regolamenti, le leggi in materia di protezione della privacy, le azioni che Facebook intraprende per rendere più sicura la piattaforma siano insufficienti, per mancanza di impegno e perché gli alti vertici di Facebook mettono, sempre e comunque, «i loro profitti astronomici davanti alle persone».
Disincentivare la circolazione di certi tipi di contenuti che incitino all’odio, alla violenza, che siano in qualche modo dannosi, è sicuramente fondamentale. Gli utenti stessi hanno la possibilità di segnalare – e certo si potrebbe discutere dell’efficacia di questo strumento. Un maggiore controllo serve. E però ci sono dei “ma”.
Qualcuno pensi ai bambini
È giusto incolpare Facebook, e i social vari, per i contenuti che, lo ricordiamo, sono condivisi da persone fisiche? È giusto incolpare i social perché quegli stessi contenuti sono scritti e pubblicati da testate giornalistiche di dubbia qualità? È giusto incolpare Instagram perché è diffusa una cultura che promuove canoni estetici irrealistici – presenti, fra l’altro, nelle pubblicità, intelevisione, praticamente dappertutto?
Si chiamano anche in causa i bambini, che sono una categoria da proteggere, salvaguardare. Eppure, non mettiamo fuori commercio i coltelli, le forbici, perché i bambini potrebbero farsi male. Sta ai genitori stare attenti, metterli nei cassetti con chiusure adatte – i coltelli, non i bambini – e adottare qualsiasi accorgimento necessario perché il bambino non si faccia male. Il coltello, in sé, è uno strumento utile, e a nessuno verrebbe in mente di fare una campagna contro i coltelli perché un bambino l’ha preso e si è tagliato. Al limite si chiede come ha fatto quel bambino a prendere il coltello, dove fosse il genitore o il babysitter. Il coltello è solo uno strumento.
L’analogia con i social, che sia Facebook o Instagram o qualsiasi altra piattaforma mi pare chiara. Sta ai genitori, a chi si occupa dei bambini tenere i social fuori portata. Ricordiamo che in Italia Facebook vieta ai minori di 13 anni avere un account, e giustamente.
Uno strumento nelle mani sbagliate
Per quanto riguarda i contenuti, certo, andrebbero sottoposti a maggiore controllo. Haugen ha criticato duramente a Facebook di aver creato delle commissioni con poche persone, per assolvere a compiti abnormi in pochi mesi. Haugen, come ha spiegato a 60 minutes, nel 2019 ha iniziato a lavorare per Facebook nel Civic Integrity Team, che si occupava di osservare le elezioni nei vari paesi e i vari rischi ad esse connessi, come la disinformazione. Nel giro di poco, il team è stato sciolto, senza ottenere risultati tangibili. Indice di mancanza di vero impegno e interesse, secondo Haugen.
Il problema è a monte. Se qualcuno va in strada con un megafono a diffondere idee violente, la colpa non è certo del megafono. I social fanno più o meno la stessa cosa: amplificano. Perché punire i social perché diffondono notizie false e non punire chi quelle notizie le scrive?
Haugen ha accusato Facebook di sfruttare la rabbia e l’odio per aumentare l’engagement degli utenti. «Un contenuto carico d’odio, divisivo, polarizzante, ha più probabilità di generare rabbia che altre emozioni»[1] ha detto Haugen nell’intervista. Non è certo una novità che la rabbia sia un ottimo tasto su cui premere – certa propaganda politica in Italia si basa proprio su questo. Ma, di nuovo, chi scrive contenuti del genere? Facebook non è una onlus, è un’azienda, e ha come scopo fare profitto. Il post rabbioso su Facebook è il punto di arrivo di una catena che ha inizio con il disagio di chi, quel contenuto, lo ha scritto.
I social sono strumenti, né buoni né cattivi, che innanzitutto bisogna saper usare. Siamo noi quelli da biasimare.
[1] Traduzione a cura dell’autrice.