sabato, 23 Settembre 2023

Covid-19: lesson learned?

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Articolo di Angelo Leonelli

“Sii avaro di citazioni”, ricordava Eco tra le sue regole dello scrivere bene. Trasgredisco e rilancio, quasi a voler proporre un meta-incipt: “Ora che abbiamo trovato le risposte, sono cambiate le domande”, è una frase attribuita ad Albert Einstein che, credo, ben sintetizza quello che abbiamo osservato nel mondo elettrico nostrano durante la fase più forte dell’emergenza Covid-19.
Per farla breve, è successo che un virus, oltre a provocare i guai che sappiamo, è riuscito anche nell’impresa di alterare i rapporti tra domanda elettrica e risorse disponibili per soddisfarla, mettendoci di fronte a problemi di cui tutti parlavamo ma che nessuno aveva ancora visto da vicino.
I numeri aiutano a chiarire e per questo vale la pena guardare a quelli di aprile, il mese interamente sotto lockdown.
I dati di Terna evidenziano che il fabbisogno italiano è stato di poco inferiore ai 20 TWh (19.910 GWh) in riduzione del 17% rispetto al corrispondente mese del 2019 (24.045 GWh), che diventa del 18% se si guarda ai numeri destagionalizzati, ossia normalizzati considerando i valori medi di temperatura e il numero di giorni lavorativi.
La generazione da fonti rinnovabili si è proposta con un incremento del 7,5%, grazie al forte contributo idroelettrico (+10,4%) e solare (+26,9%) – quest’ultimo dovuto anche a un aumento significativo di capacità (+4,3%) – e nonostante l’arretramento del wind (-14,3%), perché la prorompente primavera ha portato sole ma non vento.
Ebbene, in questo contesto, ossia in condizioni di basso fabbisogno, la gestione del sistema elettrico è risultata essere molto sensibile alla presenza delle fonti rinnovabili, in particolare del solare. Il TSO, per garantire i necessari margini di sicurezza, ha agito essenzialmente su tre leve: contenimento drastico nelle ore diurne della generazione termoelettrica, limitazioni alla generazione eolica nei giorni di maggiore ventosità e diminuzione degli scambi con l’estero in importazione.
Ne è scaturito che la domanda è stata coperta con le fonti rinnovabili (9.402 GWh) per il 47,2% (contro il 36% del 2019), il 49,1% (contro il 54% del 2019) con il termoelettrico (9.784 GWh dato, questo, in forte contrazione rispetto all’aprile 2019 -23,8%) e con lo scambio sulle frontiere solo per il 4% (10% nel 2019). E attenzione, la quota di rinnovabili sarebbe stata superiore senza le poderose limitazioni imposte da Terna agli impianti eolici. Comunque sia, tanto basta per poter dire che abbiamo esplorato nuovi territori.
Il mercato che segnali ha dato? Questo è noto a tutti: forte depressione nei prezzi dell’energia elettrica (favorita anche da un vistoso calo delle quotazioni del gas) e un inevitabile spostamento dei benefici economici per la generazione programmabile (termoelettrico in primis) sui mercati dei servizi di rete che, nelle condizioni descritte, diventano maggiormente vitali per la gestione del sistema (per il mese di aprile l’uplift – il corrispettivo che copre i costi sostenuti da Terna per le attività di dispacciamento – ha marcato il record storico di 19,5 €/MWh: potremo dire “io c’ero!”).
In estrema sintesi, abbiamo sperimentato una condizione, per il sistema elettrico in generale e per il mercato in particolare, che non dovrebbe essere molto dissimile da quella che potremmo avere dopo il 2025, con una più marcata presenza di generazione rinnovabile nel mix produttivo e meno impianti termoelettrici a disposizione. E da questo scenario possiamo trarre alcune chiare indicazioni.
La prima, forse la più importante, è che il mercato elettrico così come è oggi congegnato, disegnato avendo a riferimento un’altra impronta infrastrutturale, corre il rischio di vanificare o, peggio, scoraggiare gli investimenti in fonti rinnovabili per effetto della cannibalizzazione dei prezzi: ossia, quando cresce il contributo delle rinnovabili alla generazione, il prezzo collassa portandosi dietro la redditività degli investimenti stessi.
E qui torniamo alla profezia di Einstein: abbiamo la soluzione (oddio, una soluzione) per spingere verso la decarbonizzazione i nostri processi economici, ed ecco che cambia il problema. Con il perdurare dei meccanismi attuali di remunerazione, il rischio mercato per le fonti rinnovabili potrebbe risultare troppo alto e, paradossalmente, smentire la soluzione.
Ma attenzione! Come tutti gli analisti ed esperti di mercato sanno, l’esigenza di impianti a gas rimane – almeno in questo decennio appena iniziato (in modo non molto esaltante) e per qualche ulteriore anno a seguire – un punto fermo necessario per garantire adeguatezza e sicurezza al sistema elettrico. In quest’ottica, bisognerà però introdurre tecnologie innovative, pensate per assicurare prima di tutto flessibilità invece che energia. Anche in questo caso, i segnali di prezzo nel mercato potrebbero essere insufficienti come driver per tali investimenti. Identico discorso possiamo fare per i sistemi di storage che, progressivamente, arricchiranno il panorama dell’infrastruttura elettrica quale fattore abilitante per la definitiva consacrazione della generazione rinnovabile nel ruolo guida per la copertura della domanda: impensabile immaginare una loro diffusione con queste dinamiche di prezzo.
Quindi? Quindi, ritengo sia necessario ripensare completamente al paradigma di mercato. Iniziando da una rivoluzione lessicale. Smettiamola con l’idea di dover integrare le fonti rinnovabili nei sistemi elettrici: probabilmente è vero il contrario. In un mondo che sarà sempre più trainato dalle rinnovabili è, o sarà necessario, integrare altre forme di generazione che consentano l’effettivo esercizio delle infrastrutture di trasporto e distribuzione dell’energia elettrica.
Per andare in questa direzione, fin da subito, bisogna progettare una radicale transizione da un “sistema prezzo” a un “sistema costi”.
Per la generazione flessibile a gas consolidare i meccanismi di remunerazione della capacità e della disponibilità a fornire servizi di rete multipli e sempre più sofisticati.
Per le fonti rinnovabili una remunerazione basata su sistemi d’asta i cui risultati saranno, se progettati in logica competitiva, dimensionati sui valori (decrescenti) di LCOE che racchiude in sé costi finanziari, operativi e di manutenzione.
E, infine, anche i necessari sistemi di accumulo (includo dentro anche i pompaggi idroelettrici) potranno trovare sostenibilità economica con meccanismi prevalentemente basati sulla remunerazione di capacità.
Un mondo completamente ribaltato rispetto all’attuale. Che necessita di passaggi coraggiosi, di cambiamenti profondi che dovremmo essere pronti ad affrontare, dopo questo evento che ha segnato gli ultimi mesi. Almeno – a parole – questa è la diffusa convinzione. Non si può immaginare e progettare strutture evolute, fondate sull’integrazione di elementi tecnologicamente lontani tra loro ma dannatamente necessari gli uni agli altri. Sistemi di generazione rinnovabile, diffusa, termoelettrica ad alta flessibilità, BESS, reti per l’idrogeno verde, il tutto condito da un percorso di digitalizzazione che abbraccerà l’intera catena del valore, non possono trovare risposte in schemi che andavano bene quando ci insegnavano che la produzione di energia elettrica si faceva con il carbone, l’olio combustibile, il gas e l’acqua per coprire le punte di domanda. Preistoria elettrica, a cui guardo con affetto ma non con nostalgia. Oltretutto, il contesto energetico Europeo di cui siamo parte, si è dato obiettivi strategici e regole che vanno proprio nella direzione di prevedere un cambio di registro rispetto ai solidi e obsoleti schemi a cui spesso dobbiamo ancora far fronte. L’European Green Deal è probabile che darà un’ulteriore scossa a cui saremo chiamati a rispondere con altri approcci ed altre costanti di tempo.
La certezza è che abbiamo un obiettivo: rallentare la corsa verso una alterazione degli equilibri del pianeta. Sappiamo quali leve agire in campo energetico. Oggi abbiamo individuato una soluzione ma non è detto che sia l’unica percorribile. Forse dovremmo laicamente considerare (e riconsiderare) tutte le tecnologie basso-emissive disponibili e poi favorire, senza alzare il sopracciglio, la ricerca e l’adozione di nuove modalità di produzione, spingere maggiormente sulle logiche di riciclo, sul digitale, sull’IoT, allungando lo sguardo oltre le nostre belle scrivanie.

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