A tutti sta capitando sempre più spesso di imbattersi in Bitcoin… e di non capirci niente. Quando ne ho guadagnato un gruzzoletto, ho messo in fila in tre episodi quello che sono riuscito a scoprire di questo beniamino della Finanza Hi-Tech: quello che c’è di nuovo, quello che c’è di buono e quello che rischia di essere cattivo.
Scavando all’indietro nella storia della tecnologia che sta dietro Bitcoin e le altcoin – letteralmente le “altre” criptovalute – emerge, in tutta la sua forza di innovazione, il paradigma Blockchain, che ne regola il funzionamento (qui il primo episodio, dove ne racconto qualcosa). Questo protocollo informatico basa la sua potenza sul fatto che genera banche dati diffuse e – udite udite – non locali, come è sempre stato nella storia dell’umanità. Da uno qualsiasi dei suoi terminali – i “nodi” – è possibile aggiungere blocchi di informazioni nuovi e, se tutto funziona come si deve, quelli vecchi non si possono modificare. Nel caso delle criptovalute, i blocchi contengono gli accordi di scambio tra possessori di moneta virtuale, ordinati nel tempo per costruzione. L’approvazione dei nuovi blocchi si basa sul consenso unanime dei nodi. Ognuno di essi riceve la notizia dell’aggiunta del blocco, ne verifica la validità e la approva.
E se il giocattolo si rompe?

Quando si tratta di gestire scambi di valore, la buona fede di ogni membro della comunità diventa presto un’ingenua ambizione. Per come stanno le cose, un qualsiasi malintenzionato potrebbe decidere di far deragliare la blockchain e riuscirci, facendo sparire dei blocchi a proprio vantaggio. Come? Costruendo tutta d’un colpo una diramazione del registro principale che sia più lunga della catena fino ad allora valida: in base alle regole dell’algoritmo, la vecchia catena verrebbe abbandonata, e tutti gli accordi registrati su di essa cancellati. Questo trucco non può essere reso impossibile per costruzione, ma deve diventare svantaggioso per chi ci prova.
Mi capitava di leggere, qualche mese fa, che si accusava bitcoin di un pesante blackout in Iran. Non me ne capacitavo. Perché archiviare delle stringhe di pochi byte costa così tanto? I bitcoin sono “virtuali”, vengono dal niente, perché è così costoso generarli? Quale che fosse il motivo, si insediava in me l’atroce sospetto che i miei Bitcoin stessero minando alla sostenibilità ambientale del pianeta: l’energia elettrica che Bitcoin consuma si piazzava tra quella della Norvegia e dell’Argentina intere. L’indignazione crebbe a dismisura, quando ebbi la risposta alle mie domande. L’enorme consumo di energia non serve a nient’altro che a impedire che qualcuno rompa il giocattolo.
Barare ti costa
Scrivere una transazione sulla blockchain di bitcoin deve costare tanto: deterrente kafkiano, per quanto è diabolico. Per la piega che hanno preso le cose, ormai costa tantissimo.
La funzione “Proof-of-Work” (PoW, la stessa che si usa per scoraggiare lo spam) è ciò che ci assicura che la rete è in buona fede… suo malgrado. Quando una nuova transazione appare, tutti i nodi di Bitcoin competono per scriverla, dietro compenso, nella prossima posizione alla fine della blockchain. Per farlo, tocca però risolvere a tentativi un puzzle crittografico (“hashing”). Il primo nodo che ci riesce sottopone la soluzione agli altri nodi, che, seppure offesi per aver sprecato il loro tempo, la verificano, convalidando la transazione. In questo modo, far deragliare la blockchain a proprio piacimento richiederebbe di riuscire a risolvere nello stesso tempo più puzzle di tutti gli altri messi insieme (attacco del 51%), con un consumo di risorse ritenuto insostenibile, per valute sufficientemente diffuse. Geniale, no?

E invece, proprio qui arrivano i problemi. Il compenso, in bitcoin freschi di… stampa, per quest’attività inutile quanto essenziale, rende i nodi di Bitcoin delle miniere di criptovaluta, e i computer, incaricati di risolvere il rompicapo, dei “minatori” (“miners”, e “mining”la loro occupazione). Questa febbre del cripto-oro ha a sua volta incoraggiato il dispiegamento di computer con un hash power sempre maggiore e una conseguente polarizzazione del mining, diventato presto un’attività per pochi supercomputer, spesso in paesi dove l’elettricità costa poco e non viene da fonti rinnovabili. L’innocente pulsante “genera monete”, presente inizialmente sull’interfaccia utente della blockchain, ha fatto ben presto il suo corso, visto che gli utenti avrebbero potuto «non rendersi conto subito che avrebbero sprecato energia elettrica per anni, prima di generare anche un solo blocco». Le miniere, per una scelta ben fondata degli sviluppatori, si impoveriscono di anno in anno: così, una “tragedia dei beni comuni” si profila all’orizzonte per Bitcoin e per tutte lealtcoin che si servono della PoW.
È venuto fuori che sono anni che si teme per il futuro di Bitcoin e che si insiste perché un meccanismo di consenso più sostenibile, come la Proof-of-Stake (PoS), sostituisca la PoW. Molte altcoin, come Ethereum, competono con Bitcoin proprio battendo su questo chiodo. L’onda lunga del dibattito ha creato un nuovo piccolo tsunami (con annessa febbre ribassista) quando Elon Musk ha – candidamente? – annunciato che non si compreranno più Tesla in Bitcoin. Sta di fatto che Bitcoin gode oggi di una popolarità insperata anche solo un anno e mezzo fa, con un capitale di mercato che, seppure in discesa, rasenta i 615 miliardi di dollari, dopo aver sfiorato il triliardo. Questo enorme successo, e la sua natura di bene facilmente accessibile, antisistema ed elusivo, finiscono per accelerare le contraddizioni dovute alla sua scarsa scalabilità.
Se voglio davvero capire cosa farmene del mio gruzzoletto, devo capire cosa il mondo vuole farsene di questa montagna finanziaria. Intanto, io hodlo.