Nelle ultime settimane la crisi del mondo energetico ha avuto come epicentro l’Europa con significativi riflessi russi. Mentre però l’Unione Europea cercava soluzioni per calmierare i prezzi e proseguivano le schermaglie con Putin, i segnali provenienti da Est venivano trascurati.
I media si sono concentrati sul probabile tracollo del colosso immobiliare Evergrande, azzardando parallelismi con la crisi dei subprime statunitensi, quando in realtà la carenza di carbone in Cina – in un periodo di forte crescita post pandemica – ha paralizzato attività industriali e centri abitati. Una crisi diventata col trascorrere dei giorni più acuta, costringendo le autorità ad accantonare gli ambiziosi obiettivi di civiltà ecologica e imporre l’aumento della produzione di carbone. A complicare il quadro, le copiose alluvioni nella provincia dello Shanxi – strategica per le materie prime – che hanno causato la sospensione dei lavori in oltre 60 miniere di carbone.
Cina e India tra geopolitica e paradossi
Una situazione simile, con possibili blackout, si sta verificando anche in India – un vero paradosso, essendo il secondo importatore e la quarta riserva mondiale di carbone. Anche qui, nel recente passato, la produzione è stata rallentata per inseguire la transizione energetica e politiche green; un pericoloso azzardo in un Paese con popolazione di 1,4 miliardi.
Le prospettive attraverso le quali osservare le turbolenze sui mercati energetici sono molteplici: la scarsità delle materie prime, gli sbalzi inflazionistici, le tensioni geopolitiche, la transizione energetica, gli effetti della pandemia; l’elenco potrebbe essere ancora più lungo. Il minimo comune denominatore è rappresentato da un’instancabile ricerca di equilibrismo politico. Proprio il caso cinese, come evidenziato da Federico Rampini su Affari & Finanza, lo aiuta a comprendere: Xi Jinping infatti «ha cercato di tenere a badare l’inflazione per evitare tensioni sociali. Le forniture energetiche sono soggette a prezzi politici. Il calmiere sui prezzi è pericoloso: non trasmette ai consumatori il segnale che l’energia è scarsa e va risparmiata».
Alleanze e controsensi
Anche se può apparire superficiale, ormai risulta evidente come il global energy crunch sia “una questione di soldi, tutto il resto è conversazione”. Così come è evidente come le energie rinnovabili non siano ancora in grado di sostituire le fonti più inquinanti né di garantire il necessario approvvigionamento energetico né tantomeno di fronteggiare adeguatamente i fenomeni atmosferici, come ad esempio i monsoni, piuttosto frequenti in Oriente.
Per quel che riguarda la Cina, si nota una tendenza piuttosto stravagante: da un lato vengono rincorsi gli obiettivi di neutralità climatica, stipulati accordi o adesioni ad alleanze climatiche, organizzate conferenze sull’ambiente; dall’altro viene aumentata la produzione di carbone, si procede alla costruzione di «43 nuove centrali e 18 nuovi altiforni aggiungendo una nuova capacità a carbone per 38 GW: 3 volte l’intera capacità addizionale a livello globale».
Tra profeti e pietre focaie
La questione della transizione energetica sta oltrepassando i suoi naturali confini e sta assumendo una (grottesca) valenza escatologica. Infatti, parlare di profeti e profezie – in assenza di requisiti, ma in presenza di lodevoli intenzioni – come dimostra la Cina, rischia di trasformare un fisiologico processo evolutivo in una pericolosa battaglia per la sopravvivenza.
Il giudizio critico sul modello di sviluppo energivoro e consumista è piuttosto chiaro, in particolare sull’ircocervo cinese, resta da decidere quando ripristinare l’utilizzo delle pietre focaie.