La perentorietà e la solennità degli impegni presi al termine di COP 26 è inversamente proporzionale alla concreta capacità di realizzarli. Gli obiettivi fissati (quasi sempre nei racconti definiti “ambiziosi”) per contrastare il cambiamento climatico si trascinano stancamente da oltre trent’anni e con risultati spesso trascurabili. Al netto di vigorose strette di mano, sentiti proclami e firme decisive in calce agli accordi, si fa sempre più fatica a comprendere il senso di questi incontri.
A pochi giorni da un altro appuntamento sul clima, anche questo annunciato come determinante, sembra di leggere, in coda alla COP 26, cronache e pratiche di spin in fotocopia: l’ansia per l’attesa; i negoziatori al lavoro per trovare un accordo ed evitare il “fallimento”; i progressi insufficienti e l’impossibilità di raggiungere il traguardo; la vigilia decisiva e infine l’accordo conclusivo – in cui la fumosità e il cerchiobottismo rappresentano la sintesi più efficace del documento – con grande soddisfazione e sorrisi da parte dei contraenti. Sulla scia del teatro dell’assurdo di Beckett e Ionesco, esistono alcune varianti sul tema come addirittura un’azione congiunta da parte di Cina e Stati Uniti con un piano contro il global warming.
COP 26, tra disillusione e annunci
Senza voler essere accusati di cinismo o disillusione, il mondo non è la proiezione realizzata dei propri desideri – compresi quelli emotivamente coinvolgenti o largamente condivisibili – ma ciò che viene plasmato dalla realtà. Con buona pace di Greta.
Un esempio? Non bisogna necessariamente guardare alla Cina, capro espiatorio di ogni nefandezza ambientale e climatica, ma all’Australia che proprio durante il vertice di Glasgow ha annunciato – tramite il ministro australiano delle risorse Keith Pitt – la volontà di proseguire nello sfruttare le miniere e le centrali a carbone, preservandone l’eccellente qualità, «continueremo ad avere mercati per decenni nel futuro. E se loro stanno comprando… beh, noi stiamo vendendo».
Buone intenzioni e promesse future
Una dichiarazione così netta, da parte di un Paese afferente alla sfera d’influenza atlantica e al centro di numerose triangolazioni geopolitiche, rappresenta quasi una pietra tombale sulle buone intenzioni e promesse future del vertice scozzese. Mentre alcuni player globali provano a preservare la propria integrità economica e sovranità energetica – in tempi di global energy crunch, un dettaglio non trascurabile – continua la disputa sui decimali e gradi centigradi, nonostante da più parti e da diverse angolazioni, gli obiettivi fissati e garantiti (non superare 1,5 gradi l’innalzamento delle temperature) vengano già considerati superati.
I margini d’incertezza restano ampi, così come le divisioni. Il dato che costantemente emerge da questi appuntamenti è la precisione dei target, ma non la strategia o le fasi per raggiungerli. E pur in presenza di piani dettagliati con relativi e copiosi finanziamenti, la sostenibilità è sempre piuttosto dubbia o realisticamente sorpassata dai fatti.
Da Rio a Glasgow
Sono trascorsi quasi trent’anni dalla prima conferenza sul clima a Rio, una sorta di preparazione alla prima COP, il cui grande merito è stato quello di aver posto le tematiche ambientali ed energetiche al centro dell’agenda globale, senza però prevedere un ripensamento del modello economico.
I risultati ottenuti da questi incontri, spesso irrealistici, obbligano una ristrutturazione di un’architettura ormai fragile, logorata da anni di propaganda da parte di un ecologismo insostenibile, da utopie politiche green e da un multipolarismo ipercompetitivo.
Trent’anni corrispondono all’età della piena maturità e di una (supposta) acquisita consapevolezza, ma nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita…