La strada scelta per affrontare la transizione energetica sembra passare unicamente dall’applicazione di strumenti di politiche fiscali o monetarie: il mercato ETS, gli extraprofitti sulle rinnovabili, la carbon tax eccetera. Gli appuntamenti in cui approfonditamente, spesso con toni apocalittici, si discute di tali soluzioni sui cambiamenti climatici – dal G20 alle varie Conferenze delle Nazioni unite – continuano a mantenere una cornice che oscilla tra la perentorietà e l’ultima spiaggia.
Dagli extraprofitti alla carbon tax
Sull’efficacia delle proposte elaborate e riproposte, ma più in generale sugli scenari futuri, si addensano forti nubi: da un lato un mondo nuovo che sorge dopo la pandemia con nuove parole d’ordine; dall’altro gli effetti del conflitto russo-ucraino il cui punto di caduta, soprattutto sul versante energetico, è ancora da individuare.
Nonostante, però, gli scenari di enorme incertezza la discussione ciclicamente si orienta proprio su tali mezzi: gli extraprofitti sulle rinnovabili, che restano «una fonte a cui guardare con attenzione» – secondo quanto dichiarato da Mario Draghi al vertice di Versailles tra i leader UE – con «un gettito che in Europa potrebbe arrivare a 200 miliardi di euro». O la più longeva carbon tax, introdotta per la prima volta dalla Finlandia nel 1990, in grado di superare quasi indenne per oltre un ventennio critiche e polemiche.
In particolare, proprio questo storico provvedimento si presta ad una duplice interpretazione: non semplicemente una ecotassa contro l’inquinamento, ma uno strumento di difesa per contrastare prodotti ad alto contenuto di CO2.
In questa chiave va letta l’ultima proposta della Commissione Europea – la cui discussione va avanti da quasi un anno – approvata dai Ministri delle Finanze, per istituire una carbon tax alle frontiere dell’Unione. Come si legge su Affari&Finanza, «dopo un periodo di transizione di tre anni che si concluderà nel 2026, tutte le importazioni di acciaio, cemento, fertilizzanti, alluminio ed elettricità, prodotti che richiedono un forte consumo di energia, saranno sottoposte ad una imposizione pari a quella che già oggi si applica in seno alla UE per le emissioni di CO2. L’obiettivo è quello di evitare che le industrie di Paesi con norme ambientali molto più permissive, come la Cina o l’India facciano concorrenza sleale importando merci che vengono prodotte ad un costo inferiore perché non pagano la tassa sulle emissioni di diossido di carbonio».
Il difficile equilibrio tra esigenze diverse
Molto probabilmente la reale difficoltà del processo di transizione energetica riguarda la capacità di contemperare molteplici esigenze: la tutela ambientale; gli equilibri geopolitici; i modelli di sviluppo economico; il costo delle materie prime; un aumento generalizzato dei prezzi; gli effetti sociali ecc. Questi sono alcuni esempi, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo. L’idea di contrastare con una tassa comunitaria le potenze geoeconomiche ed energivore rischia di apparire velleitaria, a maggior in una fase come quella attuale in cui gli strumenti a disposizione dell’Unione Europea – dal pacchetto Fit fo 55 al Recovery Fund – saranno superati o rimodulati dalla storia. In tale contesto, le incertezze e le ennesime titubanze di un Europa, divisa tra velleità protezionistiche e gli spiriti (affaticati) della globalizzazione, potranno essere fatali.
Indubbiamente la carbon tax può rappresentare un valido strumento per accelerare i processi di decarbonizzazione – un quadro esaustivo è offerto dalla Banca Mondiale – tuttavia solo alcuni paesi del G20, in grado di controllare le leve energetiche ed economiche, saranno in grado di fronteggiare gli effetti distorsivi di una possibile guerra commerciale. Gli altri, in particolare i membri dell’Unione Europea, rischiano di alimentare facili e pericolose illusioni, sicuramente incapaci di soddisfare il fabbisogno energetico ed economico.