sabato, 23 Settembre 2023

Canapa alimentare: è l’inizio di una nuova era?

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di Prof. Avv. Enrico Napoletano e Avv. Luigi Fimiani

Il 15 gennaio 2020 è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto 4 novembre 2019 del Ministero della Salute che fissa, nell’Allegato II, i valori delle concentrazioni massime di “Tetraidrocannabinolo” (THC) totale ammissibili negli alimenti, come indicato a seguire:

  • Semi di canapa, farina ottenuta dai semi di canapa: 2,0 mg/Kg;
  • Olio ottenuto dai semi di canapa: 5,0 mg/Kg;
  • Integratori contenenti alimenti derivati dalla canapa: 2,0 mg/Kg.

Il Decreto consente, quindi, nei casi e nei limiti indicati e a differenza del passato, la vendita legale di taluni alimenti derivati dalla canapa.

Prima di sviluppare alcune riflessioni sugli effetti – che anticipiamo a nostro giudizio essere positivi – che la stessa presumibilmente porterà all’economia del nostro paese, non appare inopportuno, brevemente, ricordare la recente storia legislativa e giurisprudenziale sul tema soprattutto alla luce della recentissima pronuncia del Supremo Organo Giurisdizionale penale che ha certamente il merito di aver portato oggi a questo Decreto – lo ricordiamo – intitolato “Definizione di livelli massimi di tetraidocannabinolo (THC) negli alimenti”.

In particolare, le Sezioni Unite della Suprema Corte, neanche un anno fa, con la sentenza 10 luglio 2019 n. 30475, hanno rilevato come, in sostanza, la cannabis e i prodotti da essa ottenuti siano inclusi in Tabella II dall’art. 14 co 1 lett. b) T.U., per come sostituito dall’art. 1, comma 3, decreto legge n. 36 del 2014, e che tale Tabella II include tra le sostanze vietate “cannabis (foglie o infiorescenze), cannabis (olio) e cannabis (resina)”, nonché le preparazioni contenenti dette sostanze in conformità alle modalità di cui alla Tabella dei medicinali.

Inoltre, la legge n. 242/2016, prevede, all’art 2 co. 2, una serie di destinazioni di utilizzo della canapa coltivabile lecitamente che, tuttavia, per la citata sentenza, sono tassativi ed inderogabili.

Pertanto, ciò che non è incluso nell’art. 2 della legge suindicata costituisce reato, ivi compresa la commercializzazione di fiori, foglie, oli e resine in quanto fuori dall’ambito della legge 242/2016.

Era percepibile, allora, l’intento delle Sezioni Unite di reprimere il fenomeno della c.d. Cannabis light, ma tale pronuncia ha – probabilmente – generato confusione tra il fenomeno della “cannabis light” e gli altri prodotti ottenibili dalla filiera.

Considerata la laconicità della legge del 2016, regnava, pertanto, su tale tema, una evidente lacuna normativa, e tale assunto risulta dimostrato dal fatto che nel disegno della legge, che poi ha portato alla introduzione della stessa n. 242 del 2016, c’era una lettera – poi rimossa in sede di conversione – che parlava di infiorescenze, dimostrando la necessità di regolamentare precipuamente ulteriori sostanze.

Le incertezze circa la commercializzazione di derivati della cannabis sativa, non compresi nell’elenco tassativo contenuto nella suesposta legge del 2016, erano aumentate dal fatto che le Sezioni Unite subordinavano la sussistenza del reato all’offensività della condotta da valutarsi nel caso in concreto dal Giudice circa l’effetto psicotropo o no della sostanza sul fruitore.

Dalla sentenza si è pertanto creata una discrasia tra filoni giurisprudenziali circa il livello massimo di THC, su derivati diversi dalle sostanze indicate dall’art 2 co. 2 legge 242 2016, che non si sarebbe dovuto superare al fine di incorrere in una responsabilità penale, in spregio al principio della certezza del diritto.

Orbene, tale anacronismo viene, in parte, oggi superato dal decreto citato.

La bontà dello stesso si palesa con le dichiarazioni a caldo della Federazione Italiana Canapa, la quale ha affermato che “il nuovo decreto è un segnale da parte delle Istituzioni per riportare la discussione sulla canapa industriale nei binari della legalità e dell’onestà intellettuale”.

Occorre, tuttavia, evidenziare come il decreto si riferisca esclusivamente a prodotti come olio, farine (e quindi pasta, biscotti ecc.) e integratori.

Per altri prodotti, invero, come tisane, birre aromatizzate, tè, non ci sono limiti e si rinvia genericamente al regolamento europeo sui contaminanti negli alimenti.

Tale assunto dimostra come la completa sensibilizzazione del fenomeno è ancora lontana dall’essere raggiunta, ma tale primo passo può essere decisivo per ottenere tale risultato – si spera – nei prossimi anni.

Questo sembra dimostrato anche dalla ratio del decreto, che è stata specificata dal Senatore Francesco Mollame, segretario della commissione agricoltura e firmatario del subemendamento, presentato dal movimento 5 stelle, al disegno di legge di bilancio, il quale ha affermato che: “regolamentiamo un comparto della produzione agricola caratterizzato da poca chiarezza dovuta ad incertezze normative e giurisprudenziali. La nostra proposta nasce per introdurre disposizioni di legge chiare e chiudere alcune falle normative aperte dalla legge del 2016 e dalle interpretazioni della sentenza delle Sezioni Unite. L’intento è quello di non lasciare alcun dubbio interpretativo”.

Peraltro – e a parere di chi scrive è questo il punto focale – sono stati altresì considerati i benefici che, a livello economico ed industriale, porterà questo primo cambio di rotta.

Sempre Francesco Mollame afferma infatti che “incentivare questo mercato porterà non solo ad un percorso virtuoso di green economy ma darà anche uno slancio all’economia di settore.”.

Addirittura alcuni dati diffusi dai produttori di canapa stimano un impatto per l’indotto di oltre due miliardi di euro con uno sviluppo dell’occupazione giovanile che conterà dai 40 mila ai 60 mila posti di lavoro in più, favorendo moltissimo l’agricoltura italiana.

Quindi, fortunatamente, e a differenza di quanto accaduto con la riforma, entrata in vigore il 1^ gennaio 2020, sulla prescrizione, sul tema il legislatore ha abbandonato quelle che potevano essere delle concezioni “populiste”, basate sul sentire comune, ed ha deciso di avviare un processo decisamente favorevole per il nostro mercato e la nostra economia, peraltro deficitaria.

Un obiettivo di crescita economica che, se non è causa di nocumento al bene collettivo della salute (assunto, secondo i dati scientifici ad oggi predominanti, da escludersi per i prodotti in questione), è, peraltro, espressamente tutelato e promosso dalla nostra carta costituzionale all’art. 41, purché “la legge determini i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Un ulteriore beneficio ne deriverà, invero, anche per le entrate fiscali dello Stato, poiché la normativa in questione va a modificare il Testo Unico delle Accise (d.lgs. n. 504 26 ottobre 1995), introducendo una imposta sulla biomassa di canapa.

Peraltro, le precedenti normative o interpretazioni restrittive delle norme determinavano, in concreto, un ostacolo alla libera circolazione delle merci e, conseguentemente, un rischio di censura da parte della UE, considerato che il principio della libera circolazione di merci, una delle quattro libertà fondamentali dell’Unione europea, viene tutelato dagli artt. da 28 a 37 del TFUE.

In tale senso pare opportuno difatti richiamare il disposto dell’art. 7 comma 1 decreto 15 gennaio 2020, che testualmente si riferisce al principio del mutuo riconoscimento, il quale prevede che: “le merci legalmente commercializzare in un altro Stato membro dell’Unione europea o in Turchia o proveniente da uno Stato EFTA firmatario dell’accordo SEE e in esso lagalmente commercializzate sono considerate compatibili con questa misura.”

Dunque, conclusivamente, tale decreto sembra squarciare il velo dell’ancestrale retaggio culturale secondo cui ogni prodotto derivato dalla canapa sia una “droga” a tutti gli effetti, concezione peraltro da molti anni abbandonata in molti paesi differenti dal nostro.

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