Alla vigilia della visita in Italia del presidente cinese Xi Jinping per la firma di un accordo storico tra Roma e Pechino, da Palazzo Chigi arriva la notizia dell’intenzione del Governo di estendere il “golden power” alla realizzazione del 5G sul territorio nazionale. Un tempismo veramente perfetto, soprattutto se si pensa che i due provvedimenti prendono direzioni politiche ed economiche opposte e parallele. L’estensione del golden power – norma fortemente voluta dal Sottosegretario di Stato della Lega Giorgetti – dovrebbe avvenire attraverso una modifica del decreto legge del 2012 (Dl 15 marzo 2012 n.21) relativo all’esercizio di poteri speciali da parte del Governo su tutte quelle società, pubbliche e private, che operano in settori di rilevanza strategica per la difesa e la sicurezza nazionale. In sostanza, se venisse approvata, la norma darebbe poteri quasi esclusivi al Governo in materia di sviluppo futuro della rete di quinta generazione.
La decisione sarebbe frutto della «crescente preoccupazione» dei grandi player politici (G7, Usa e la stessa Commissione europea) sulla cybersecurity internazionale. Il punto centrale è il coinvolgimento dei colossi cinesi delle telecomunicazioni nella costruzione delle infrastrutture del 5G: la strategicità di queste infrastrutture giustificherebbe l’estensione del provvedimento «anche – e soprattutto – agli acquisti da parte di imprese, pubbliche o private» extraeuropee che operano nel settore del 5G. La norma varata e congelata nel decreto Brexit – approvato, salvo intese, in attesa della conclusione della visita di Xi Jinping – arriva al termine di settimane di trattative intense nella maggioranza gialloverde sul memorandum d’intesa Italia-Cina, in particolare sul fronte delle telecomunicazioni. Un settore da mesi al centro dei riflettori per la campagna internazionale di Trump contro la tecnologia dei colossi orientali. Il boicottaggio del Presidente americano poggia tutto sull’accusa alle aziende cinesi di condurre attività di cyberspionaggio tramite i propri dispositivi per conto del Governo di Pechino. Di primo acchito, le ragioni alla base della campagna Usa potrebbero apparire animate da buoni propositi, spingendo un osservatore poco informato a lodare la volontà del “paladino della democrazia mondiale” di smascherare le malefatte della cattiva e antidemocratica Cina. Peccato, però, che ad oggi le intelligence degli Stati non abbiano ancora trovato uno straccio di prova a conferma delle accuse rivolte alle aziende cinesi, spingendo qualcuno a definire quella contro Huawei una vera e propria “isteria crescente senza prove”: un “dettaglio” ignorato dalla quasi totalità dei commentatori che hanno trattato la vicenda sui media nazionali, ma indicativo di come l’approccio sia stato eccessivamente ideologico, senza un’analisi oggettiva dei fatti. Una caccia alle streghe costruita ad hoc dagli Stati Uniti, che dietro la “maschera” della protezione della cyber sicurezza cela una strategia di natura politica volta a contrastare l’ascesa del “nemico” cinese come potenza tecnologica mondiale.
E questo fatto non è sfuggito alla governance dei Paesi europei. Se la crociata statunitense contro i giganti cinesi delle tlc ha goduto dell’appoggio iniziale da parte di alcuni governi alleati, nell’ultimo periodo si è scontrata contro il muro del buon senso di Germania e Gran Bretagna (ma anche Francia, India ed Emirati Arabi Uniti), che hanno risposto con un sonoro rifiuto alle pressioni americane mirate a estromettere le aziende cinesi dalla partita del 5G. Il governo tedesco e quello inglese infatti, pur non escludendo preoccupazioni per la propria sicurezza nazionale, hanno adottato un approccio pragmatico chiedendo rassicurazioni a Huawei sul rispetto delle normative nazionali nella costruzione delle infrastrutture della rete. Una strada su cui era indirizzata anche l’Italia, dove il vicepremier Di Maio ha evidenziato i vantaggi economici derivanti dall’impiego delle apparecchiature tecnologiche cinesi per lo sviluppo del 5G, salvo poi essere costretta a fare marcia indietro a causa della contrarietà della Lega ad includere la nuova rete nelle dinamiche economiche legate alla “Nuova Via della Seta”.
Miopia e qualunquismo. Stiamo assistendo in questi giorni ad un dibattito pubblico troppo superficiale da parte di tutti gli schieramenti dello spettro politico nazionale. Un confronto incentrato sulla paura, in cui è stata addirittura evocata una “colonizzazione” ad opera delle imprese cinesi a danno del sistema economico italiano. Una tesi che non trova alcun fondamento nell’evidenza storica, che ha visto la Cina affermarsi come potenza pacifica e non espansionista sin dalle sue origini, e sulla base della quale non esistono elementi per affermare che questa si comporterà diversamente in futuro. Per questa ragione, l’Italia deve guardare alla prospettiva di una Nuova Via della Seta per quello che è: un’opportunità, che ci permetterebbe di entrare a far parte di uno dei piani di cooperazione internazionale a più largo raggio e di più lungo respiro che esista al mondo. Ma più in generale, è l’Unione europea a non doversi far sfuggire questo treno, che gli consentirebbe di stabilire una connessione strategica con la parte più dinamica del mondo, dove viene prodotta una quota enorme del PIL globale e che cresce a tassi medi annui del 7%. D’altro canto, in questa fase storica la Cina è l’unico paese che dispone delle risorse e della visione per mettere in campo un’iniziativa di questa portata.