Commento alla sentenza della Corte Costituzionale n.8 del 18 gennaio 2022
La Corte Costituzionale, con la sentenza del 18 gennaio 2022 n. 8, consente una mirabile vista d’insieme sulla situazione giuridico-economico-sanitaria che la realtà contemporanea ci ha consegnato, favorendo anche la ricognizione di possibili scenari futuri.
In ordine di tempo.
Le carte geografiche del mondo sono state “dispiegate” dalla pandemia da Covid-19.
Una delle molteplici conseguenze è da riconoscersi in una nuova sensibilità dell’Europa rispetto ai finanziamenti dei paesi membri: si è così delineato il Next Generation EU (NGEU), “perno della strategia di ripresa post-pandemica”.
Il resto è noto.
L’Italia ha elaborato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) animato da un Governo extra ordinem di stampo eccezionale, proprio in vista di questo notevole impegno.
Una volta delineato il Piano e ricevuta la sua approvazione (il 13 luglio 2021) dal Consiglio dell’Unione Europea, si va aprendo la stagione della sua messa in esecuzione con i nodi strutturali, logistici e di tempistica che tutti aspettano e paventano. Si tratta, in altri termini, del passaggio alla fase attuativa e quindi alla sua esecuzione e, dunque alla risposta che soggetti privati e pubblici saranno in grado di fornire.
Qui entra in scena (si fa per dire) la Consulta con la sentenza del 18 gennaio 2022. In sintesi, la Corte rileva come lo statuto penalistico della pubblica Amministrazione abbia un suo “pendolo” interno costituito dall’oscillare in senso ora restrittivo, ora ampliativo del sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa, sindacato che ha nel reato di abuso di ufficio il suo puntello centrale e strategico.
Di qui, nota la Corte, a fronte di una dilatata invasività del giudice penale, il delinearsi di una Amministrazione “difensiva”, connotata dall’apparire sulla scena operativa di dirigenti – ed il punto vale l’attenzione – ormai connotati dalla “paura della firma”.
Dovrebbe, a questo punto, risultare chiaro l’aggancio al percorso iniziale.
L’Italia ha bisogno di riforme sistematiche, da consegnare in leggi ad hoc; ha spasmodica necessità altresì che il PNRR si “incarni” in progetti attuati in tempi e modalità effettive, economiche, in una parola, portatrici di risultati certi e garantiti.
Va, pertanto, apprezzata fino in fondo la pronuncia sia per la consapevolezza dei problemi che l’attività amministrativa si porta dietro (basti pensare ai canoni costituzionali ex art. 97 che da baluardi, possono trasformarsi in una sorta di “rumore” di fondo, quale parametro, al tempo stesso elevato, ma anche penalizzante), sia, nel caso specifico, per la dichiarata infondatezza della questione sollevata, lasciando intendere che bene il legislatore ha attenuato le maglie operativa del reato di abuso d’ufficio, come la precaria ed allarmante situazione del Covid-19 richiedeva e l’attuazione del PNRR pretende.
Seguiamo ora, nei suoi punti salienti, il ragionamento della Corte.
L’abuso di ufficio
Per la Consulta, la figura criminosa dell’abuso d’ufficio, assolvendo una funzione “di chiusura” del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, rappresenta il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa: tematica percorsa da una perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto tondo, atto a fungere da freno alla mala gestio della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante.
Al tempo stesso, si tratta di fattispecie caratterizzata da congeniti margini di elasticità, generatori di persistenti problemi di compatibilità con il principio di determinatezza.
Di tutto ciò – prosegue la Corte – è testimonianza la tormentata parabola storica della figura.
Il disegno originario
Nel disegno originario del codice penale del 1930, l’abuso d’ufficio era descritto all’art. 323 con formula semplice, ma, in pari tempo, estremamente comprensiva: veniva, infatti, punito il pubblico ufficiale che, «abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette[sse], per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge».
Le criticità di una ipotesi criminosa – nota la sentenza- così congegnata rimanevano, peraltro, attutite dal fatto che essa era chiamata a recitare un ruolo marginale nel sistema.
Si trattava, infatti, di una figura sussidiaria e blandamente punita, stretta, com’era, tra le due fattispecie delittuose cui risultava allora precipuamente affidato il controllo di legalità sull’attività amministrativa: il peculato per distrazione e l’interesse privato in atti d’ufficio (artt. 314 e 324 cod. pen.). Figure anch’esse, peraltro, dai contorni assai labili, che permettevano alla magistratura penale penetranti incursioni sulle scelte della pubblica amministrazione.
La riforma del 1990
Lo scenario mutava con la riforma operata dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), la quale, onde arginare tale temperie, estromise dalla fattispecie del peculato la forma per distrazione e abrogò il reato di interesse privato in atti d’ufficio.
Di riflesso, però, (sottolinea la Consulta) la riforma riscrisse l’art. 323 cod. pen., nella prospettiva di far refluire nell’abuso d’ufficio una parte delle condotte già colpite dalle fattispecie abrogate, con un filtro – almeno negli intenti – di maggiore selettività. A questo fine, si prevedeva che l’abuso d’ufficio – esteso anche agli incaricati di pubblico servizio – dovesse essere finalizzato ad un vantaggio, proprio od altrui, «ingiusto», o a un danno altrui del pari «ingiusto», con la previsione di un sensibile aumento della pena, qualora il vantaggio fosse di natura patrimoniale.
I risultati non furono, tuttavia, quelli sperati. L’abuso d’ufficio acquistava di colpo una centralità applicativa in precedenza ignota, non accompagnata, però, da un reale incremento di determinatezza della fattispecie tipica, la quale restava incentrata su una condotta in sé vaga – quale quella di «abusa[re] del[l]’ufficio» – senza che il requisito dell’ingiustizia del vantaggio o del danno, oggetto del dolo specifico, si rivelasse capace di delimitare adeguatamente i confini del tipo.
Il rivisitato art. 323 cod. pen. divenne, così, il nuovo strumento per un penetrante sindacato della magistratura penale sull’operato dei pubblici funzionari, adombrando il costante spettro dell’avvio di indagini in loro danno.
La riforma del 1997
A distanza di pochi anni, il legislatore corse quindi ai ripari, riscrivendo una seconda volta la norma incriminatrice con l’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale).
Dismesso il generico riferimento all’abuso dell’ufficio (che resta solo nella rubrica dell’art. 323 cod. pen.), la condotta tipica – si evidenzia – viene individuata nella «violazione di norme di legge o di regolamento», ovvero, in alternativa, nella omessa astensione «in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti». La fattispecie si trasforma, altresì, in reato di evento, essendo richiesta, ai fini del suo perfezionamento, l’effettiva verificazione dell’ingiusto danno o dell’ingiusto vantaggio patrimoniale (il vantaggio non patrimoniale perde rilevanza); evento che deve essere oggetto di dolo intenzionale.
Nel risagomare la figura, il legislatore del 1997 aveva agito con il trasparente intento di renderne più nitidi i confini, impedendo, in specie, un sindacato del giudice penale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa. Il riferimento alla «violazione di norme di legge o di regolamento», evocando uno dei vizi tipici dell’atto amministrativo, doveva servire infatti a metter fuori, a contrario, l’eccesso di potere, non menzionato.
Le soluzioni della giurisprudenza
Le intenzioni del legislatore hanno dovuto, però, fare i conti con le soluzioni della giurisprudenza, la quale, dopo una fase iniziale di ossequio allo spirito della novella, è virata verso interpretazioni estensive degli elementi di fattispecie, atte a travalicare i rigidi paletti che la novella legislativa aveva inteso fissare e a riaprire ampi scenari di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa discrezionale.
E’ venuto infatti a consolidarsi, da un lato, nella giurisprudenza di legittimità, l’indirizzo in forza del quale la «violazione di norme di legge», rilevante come abuso d’ufficio, può essere integrata anche dall’inosservanza del generalissimo principio di imparzialità della pubblica amministrazione, enunciato dall’art. 97 Cost.: principio che – secondo la Corte di cassazione – nella parte in cui vieta al pubblico funzionario di operare ingiustificati favoritismi o intenzionali vessazioni, esprimerebbe una precisa regola di comportamento di immediata applicazione.
Eccesso di potere id est abuso di potere
Dall’altro lato, poi, si è assistito (non manca la Corte di rilevare) al recupero nell’area di rilevanza penale degli atti viziati da eccesso di potere, nella forma dello sviamento. Con soluzione ermeneutica avallata dalle Sezioni Unite, la Corte di Cassazione ha ritenuto, infatti, che la violazione di legge cui fa riferimento l’art. 323 cod. pen. ricorra non solo quando la condotta del pubblico funzionario si ponga in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando sia volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, dando luogo appunto a un vizio di sviamento: vizio che integrerebbe la violazione di legge, perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione.
La burocrazia “difensiva” – “la paura della firma”
Si è venuta a creare, in questo modo, (secondo la decisione) una situazione che riecheggia, per molti versi, quella registratasi all’indomani della legge n. 86 del 1990 e alla quale la successiva legge n. 234 del 1997 aveva inteso por rimedio. Ciò, peraltro, in presenza di un inasprimento della pena edittale del reato, che, già fissata da tale ultima legge nella reclusione da sei mesi a tre anni, è stata elevata dall’art. 1, comma 75, lettera p), della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) alla reclusione da uno a quattro anni.
Per opinione ampiamente diffusa, deve individuarsi, infatti, proprio in tale stato di cose una delle principali cause della sempre maggiore diffusione del fenomeno che si è soliti designare come “burocrazia difensiva” (o “amministrazione difensiva”). I pubblici funzionari si astengono, cioè, dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”).
Il D.L. 76/2020 “decreto semplificazioni”: la modifica di segno restrittivo dell’area di rilevanza penale disposta dall’art. 23.
La conclusione del giudice delle leggi: benché l’esigenza di contrastare la “burocrazia difensiva” e suoi guasti, agendo sulle cause del fenomeno, fosse già da tempo avvertita, (è la conclusione della Consulta) la scelta di porre mano all’intervento è maturata solo a seguito dell’emergenza pandemica da COVID-19, nell’ambito di un eterogeneo provvedimento d’urgenza volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza.
Si allude al d.l. n. 76 del 2020, correntemente noto come “decreto semplificazioni”.
Il provvedimento si occupa, in un apposito capo (il Capo IV del Titolo II), intitolato «Responsabilità», delle due principali fonti di “timore” per il pubblico amministratore (e, dunque, dei suoi “atteggiamenti difensivistici”): la responsabilità erariale e la responsabilità penale. Entrambe vengono fatte oggetto di modifiche limitative e all’insegna della maggiore tipizzazione.
Quanto alla responsabilità penale, l’art. 23 del decreto-legge in esame – norma oggi censurata, rimasta invariata all’esito della conversione operata dalla legge n. 120 del 2020 – ridefinisce per la terza volta, nel suo unico comma, il perimetro applicativo del delitto di abuso d’ufficio: nell’occasione, però, senza riscrivere per intero la disposizione del codice penale, ma incidendo in modo “mirato” sulla prima delle due condotte tipiche, rappresentata dalla «violazione di norme di legge o di regolamento» (mentre quella alternativa dell’inosservanza di un obbligo di astensione resta invariata).
La modifica consiste, in specie, nella sostituzione della locuzione «di norme di legge o di regolamento» con l’altra «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
In negativo, dunque, la recente novella estromette il riferimento ai regolamenti; in positivo, richiede che la violazione abbia ad oggetto regole specifiche previste in modo espresso da fonti primarie e che non lascino al funzionario pubblico spazi di discrezionalità. Particolarmente su questo secondo versante, risulta trasparente l’intento di sbarrare la strada alle interpretazioni giurisprudenziali che avevano dilatato la sfera di operatività della norma introdotta dalla legge n. 234 del 1997: la puntualizzazione che l’abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad impedire che si sussuma nell’ambito della condotta tipica anche l’inosservanza di norme di principio, quale l’art. 97 Cost.; richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare «margini di discrezionalità» si vuol negare rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere.
Per la sentenza, si è, dunque, al cospetto di una modifica di segno restrittivo dell’area di rilevanza penale – specie nel raffronto con la “norma vivente” disegnata dalle ricordate interpretazioni giurisprudenziali – con conseguenti effetti di abolitio criminis parziale, operanti, come tali, ai sensi dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., anche in rapporto ai fatti anteriormente commessi (quali quelli oggetto del giudizio a quo).
Articolo a cura di Diotima Pagano
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