Quando pensiamo al rapporto tra ricchezza, successo e talento, tendiamo a immaginare una certa correlazione che si presenta trasversalmente per classi, settori, paesi. La realtà invece è ben diversa, ed è illustrata in modo molto chiaro da un modello informatico realizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Catania, Alessandro Pluchino e colleghi.
La distribuzione della ricchezza segue un andamento perfettamente descritto dalla regola 80/20, che poi altro non è che il Principio di Pareto: l’80% della ricchezza è di proprietà del 20% della popolazione, e il restante 80% della popolazione si divide il 20% della ricchezza.
Questa condizione di diseguaglianza, sin dalla nascita delle società contemporanee è motivo di malumori e scontenti sociali, ed è sempre stata giustificata con la scusa della meritocrazia: impegno e talento insieme possono portarci in alto, per cui la scalata sociale è sempre possibile.
Il problema alla base di questo ragionamento, però, è che il talento non ha una distribuzione sovrapponibile a quella della ricchezza: mentre la distribuzione della ricchezza segue una legge di potere, la distribuzione del talento umano segue una distribuzione normale. La distribuzione normale, come sappiamo, è simmetrica rispetto a un valore medio. Possiamo fare l’esempio dell’intelligenza: se il QI medio è 100, molto difficilmente troveremo qualcuno con QI di 1.000, o 10.000. La stessa cosa potremmo dire a proposito dell’impegno e lo sforzo nel lavoro: possiamo immaginare facilmente che mediamente le persone lavorino otto ore al giorno, ma non esiste qualcuno che possa lavorare cento, mille ore al giorno.
Eppure, anche se non esistono persone dal quoziente intellettivo dieci volte più alto della media, e neanche persone che lavorano dieci volte di più della media, com’è possibile che esista un tale dislivello di ricchezza? Dallo studio di Pluchino & co, pare che sia il caso a giocare un ruolo molto più importante di quanto si possa pensare.
I ricercatori dell’Università di Catania hanno creato un modello informatico del talento umano, e hanno studiato il modo in cui le persone usano il proprio talento per sfruttare le opportunità nella vita. Le simulazioni che ne derivano riproducono fedelmente la distribuzione della ricchezza nel mondo reale, ma quel che emerge è che gli individui più ricchi non sono i più talentuosi, sono i più fortunati.
Il modello prende in analisi circa quarant’anni di vita lavorativa degli individui presi in esame, tenendo come eventi speciali gli eventi fortunati (e sfortunati), completamente frutto del caso, che gli individui possono sfruttare per aumentare la propria ricchezza e il proprio successo.
Al termine dei quarant’anni gli individui sono classificati per ricchezza e la regola 80/20 risulta perfettamente rispettata, ma sono quegli eventi capitati per caso, e non il talento, a determinare la condizione di ricchezza di fine carriera.
Lo studio del caso sul manifestarsi degli eventi non è cosa nuova, l’European Research Council ha recentemente stanziato 1,7 milioni di euro per studiare proprio gli effetti della serendipity. Giocati dal caso, di Nassim Nicholas Taleb, è l’illuminante racconto della forza della fortuna e del caso, spesso scambiati per abilità, dal punto di vista di un professore di finanza.
Non è vero che non siamo dove vorremmo essere per puro demerito: il caso e gli eventi fortunati sono la vera e propria marcia in più che possono spingerci a correre più veloce. Probabilmente, oltre ad approfondire lo studio del modello di Pluchino & co, quello che resta da fare è investire su studio, impegno e talento, ma tenere sempre gli occhi ben aperti sugli eventi che ci investono, senza scansarli, senza fare slalom. Se gli inetti spesso si trovano dove dovrebbero esserci quelli bravi, è perché talvolta gli inetti non hanno la paura di sbattere contro un palo.