Nel 2011 il 70% dei CEO riuniti nel gran galà del capitalismo radical chic di Davos – quello dove arrivi con il jet privato e poi chiami Oxfam a dettare la prammatica e il pensiero, come nella famosa cena di Leonard Bernstein con le Pantere nere – risposero a un’indagine dichiarando che la maggiore preoccupazione del futuro prossimo sarebbe stata la crescente complessità del sistema mondo e in particolare delle sue leggi. Come si può gestire un sistema economico che da un lato è sempre più interconnesso e interdipendente, basato com’è su catene di produzione distribuite in ogni angolo del mondo, e dall’altro è invece, ancora, legato ai sistemi nazionali di produzione di norme e infrastrutture legali e al monopolio di corti, tribunali e assemblee legislative? Questa è la domanda che si pone Gillian Hadfield in “Rules for a flat world”; dove l’espressione “flat world” è una citazione del mondo piatto di cui parlava Thomas Friedman nel 2005, un mondo la cui geodetica era stata appena stravolta dalle catene di produzione globali.

Per provare a rispondere al quesito che l’economia mondiale e i suoi governanti si pongono ogni mattina davanti allo specchio, Hadfield evita di addentrarsi dove finiscono per ritrovarsi quasi tutti i suoi colleghi giuristi, cioè nella discussione – a tratti ombelicale – sulla governance mondiale e i suoi possibili sviluppi (come fa, ad esempio, anche Sabino Cassese nello splendido “Chi governa il mondo?”), o nello scontro tra efficienza e democrazia; e disegna, invece, in maniera originale – anche grazie alla sua formazione economica – un nuovo punto di vista sul problema.
Ad essere particolare e originale nel saggio di Hadfield è, innanzitutto, l’appartenenza a quella minoritaria scuola di giuristi che vede la legge come un fenomeno naturale, sociale e culturale, e non come un ideale platonico o una modalità di governo da imporre dall’alto. Nella visione che Hadfield mutua da un professore di Harvard degli anni ‘60 (Lon Fuller) è naturale per gli animali (e così l’uomo, con il suo vantaggio cognitivo e culturale) tendere a stabilire delle regole comuni con l’obiettivo di ridurre al minimo gli scontri e di massimizzare la cooperazione. Non è lo Stato a salvarci dallo stato di natura hobbesiano – che anzi non è mai esistito – e non vi è, perciò, necessità alcuna che lo Stato mantenga il monopolio dell’infrastruttura legale. Passando in rassegna le ultime scoperte della ricerca storiografica e la letteratura della biologia evoluzionista, Hadfield sostiene che la legge viene prima della scrittura, che un senso di giustizia è codificato nel DNA dei nostri primati, e che anche durante la caccia all’oro californiana – nell’intermezzo tra governo messicano e americano – i minatori riuscirono a produrre regole e norme capaci di gestire l’enorme afflusso di cercatori d’oro che nel frattempo giungeva in California.
Su questa base anti-hobbesiana, nella seconda parte del saggio, Hadfield sviluppa una lettura economica della legge, la cui produzione, come ogni altro bene o servizio economico, deve essere stimolato dal mercato e dalla competizione. Per cui l’enorme complessità che frena il sistema globale, deriva dal limite del monopolio pubblico della produzione delle leggi. Il monopolio pubblico deve gestire l’implementazione e il controllo legale, non il design e la costruzione dell’infrastruttura legale. Importanti eccezioni descritte da Hadfield sono il Regno Unito e l’Australia dove la produzione di alcune norme e regole è stata appaltata al settore privato. Attenzione, ovviamente, la produzione non viene appaltata a un singolo soggetto privato, che si scrive le norme per sé, come accaduto, ad esempio, quando l’UE ha chiesto a Google di scrivere le norme per il diritto all’oblio su internet (cioè sugli stessi motori di ricerca di Google), che non risolverebbe – tutt’altro, diremmo – il problema del monopolio.
Il mercato globale ha bisogno di un mercato ultra-competitivo capace di generare l’infrastruttura più semplice e efficiente possibile. Un mercato capace di attrarre risorse dal mondo dell’ingegneria informatica e dalle migliori facoltà di management.
Quale strumento migliore, quindi, per realizzare il mercato globale per l’infrastruttura legale sognata da Hadfield se non la tecnologia più in voga del momento: la blockchain. Gran parte delle promesse di un mondo migliore legata all’avvento della blockchain non riguardano solo i pagamenti e le monete virtuali, ma anche la possibilità di sfruttare il network decentralizzato della blockchain per la costruzione di contratti intelligenti. Contratti capaci, grazie al controllo attuato dal network di non avere bisogno di un intermediario, e, soprattutto, capaci di eseguirsi da soli (o meglio eseguiti dal network in tempo quasi reale). Il tutto alla velocità necessaria per gestire il vorticare dell’economia globale.
Insomma, Hadfield ha scritto un saggio sottovalutato e taciuto dalla polverosa comunità giuridica, che, se provate a raccontargli qualcuna delle ipotesi descritte nel libro, purtroppo, non farà altro che alzare il sopracciglio; ma che in realtà prova a smuovere una discussione sempre più importante, anche se sempre più paludosa e asfissiante.
Titolo originale: Gillian K. Hadfield – Rules for a Flat World: Why Humans Invented Law and How to Reinvent It for a Complex Global Economy, Oxford University Press,408 pp.