“Ti piace?”. “Beh, ha il suo stile”. Quante volte abbiamo sentito questa frase, riferita ad un libro, un articolo, una canzone, un’opera d’arte? Il senso è: non mi piace, non è un granché, ma almeno si capisce chi è l’autore, siamo sicuri che non è un robot assembla-parole-a-casaccio. Sembra che tutti, più o meno, abbiano il proprio stile. O che nessuno ne abbia uno.
Quando, a causa di questo presunto stile, diventi un personaggio pubblico, o almeno un po’ riconosciuto, lo stesso stile che ti ha portato quel po’ di riconoscimento inizia a trasformarsi in una prigione. Nessuna umana evoluzione possibile, nemmeno un minimo cambio di rotta sennò sei incoerente o paraculo, se cambi sei un traditore, tradisci il tuo pubblico, tradisci te stesso, quindi devi continuare sempre allo stesso modo, fino alla noia, alla nausea, all’esasperazione, al grottesco.
Qualcuno si specializza, riesce a trovare nella ripetizione la perfezione e gli va bene così. Altri soccombono. Se funziona un certo tono spingi sempre quel tono, se va quell’argomento ci giri intorno per anni. “Questi sono i miei temi” è un’altra frase cult. Se ne scrivi solo una volta sei un iniziato, un parvenu: “Non sei abbastanza esperto per scrivere del mio tema”. Anche qui: stile? Chi sei tu per parlare di stile letterario? Nessuno. Come scriveva Edoardo Sanguineti: “Il mio stile è non avere stile” – è solo quando si viola la propria maniera che si allenta la trama del discorso e si può finalmente respirare. Se, anche accidentalmente, l’autore esce dal suo mantra, magari solo per una frase che quasi nessuno noterà, ecco che la pagina prende colore.
Cercare fra le righe questo qualcosa, un indizio di umanità, è l’unico modo per apprezzare uno scrittore. Spesso ci si rivolge al passato, all’imitazione di stili morti, ad un eloquio costituito da tutte le maschere e le voci immagazzinate nel museo immaginario di ciascuno. Chi cerca di farlo oggi risulta anacronistico, retorico, dissociato. Come chi si porta dietro il bagaglio romantico, dello stile-voce ispirata, del pungolo, del linguaggio interiore che ha il potere di plasmare la forma – sono spesso accompagnati da un atteggiamento compunto, serioso, dall’essere volutamente impegnati, perché la cultura dev’essere per forza noiosa, complessa e faticosa per avere un valore.
Chi prova ad essere più aderente alla sua realtà, invece, spesso, sembra parlare con se stesso, al massimo con i suoi amici di quartiere, e basta. Gli stili “inimitabili” sono in via di estinzione: la lunga proposizione di Faulkner con i suoi gerundi che non lasciano prender fiato, la retorica della natura di Lawrence interrotta da brusche espressioni colloquiali, le ipostasi accanite di Wallace Stevens di parti del discorso non nominali, la pratica sollenne-meditativa heideggeriana della falsa etimologia come maniera di dimostrare. Tutti questi stili ci colpiscono in qualche modo come caratteristici, deviano ostentatamente da una norma che poi torna a riaffermarsi attraverso un’imitazione sistematica delle loro eccentricità, come dice Jameson.
È paradossale: nel periodo storico in cui le storie potrebbero avere meno importanza del come sono raccontate, lo stile stenta a farsi vedere, anzi, si trasforma in maniera. Proprio quando, per una congiuntura fortunata, perde d’importanza la trama (che noia questo storytelling) e può dettare legge lo stile, può prendere corpo come vuole senza soffrire di un incontro o di una morte obbligata, si suicida pure lui, e resta giusto un bel panorama impressionista sullo sfondo.
Quando diventi un personaggio pubblico, o almeno un po’ riconosciuto, lo stesso stile che ti ha portato quel po’ di riconoscimento inizia a trasformarsi in una prigione