I cambiamenti all’algoritmo principale di Facebook annunciati da Mark Zuckerberg in questo inizio di 2018 potrebbero cambiare radicalmente il nostro rapporto con la piattaforma più frequentata nei Social Media. In sintesi il Newsfeed, la schermata principale a scorrimento infinito con cui tutti noi interagiamo su Facebook sia nel browser desktop che tramite app mobile, mostrerà d’ora in poi meno contenuti spontanei da pagine di brand, testate giornalistiche, aziende e più da amici, familiari, gruppi di interesse.
Il motivo indicato dal fondatore di Facebook è migliorare la qualità del tempo speso sulla piattaforma, favorire le interazioni significative per ciascuno di noi a scapito di contenuti pubblici commerciali o informativi. Più qualità e meno quantità, avverte Zuckerberg, così come gli stessi utenti chiedono a gran voce, un cambiamento che (secondo le stesse parole del fondatore) potrebbe anche portare a una contrazione del tempo passato su Facebook e forse a un rallentamento della crescita degli utenti. Perché allora una mossa di questo tipo, apparentemente svantaggiosa? La realtà è che il 2017 è stato un annus horribilis per Facebook.
Non per i risultati economici che sono sontuosi: nel terzo trimestre 2017 ha ottenuto +49% (anno su anno) per il fatturato dall’advertising, superando i 10 miliardi di dollari, +79% per il ricavo netto, +16% per gli utenti attivi mensili ormai oltre i 2 miliardi, il valore delle azioni cresciuto più del 40% nell’ultimo anno.
Il motivo è che sono venuti al pettine alcuni nodi mai risolti dalla piattaforma e gli stessi investitori se ne sono accorti, facendo crollare il titolo del 4,47% il giorno stesso dell’annuncio delle modifiche.
Nel 2017 sono emersi visibilmente i limiti nella gestione dei contenuti più estremi in una piattaforma che raccoglie così tanti individui appartenenti a culture molto differenti: dai contenuti d’odio alla disinformazione, dai suicidi in diretta al bullismo, dalle accuse di sfruttare punti deboli e generare dipendenza – persino da voci autorevoli del settore e da ex suoi manager – fino alla strumentalizzazione inconsapevole subita per influenzare dall’estero le elezioni presidenziali americane e i processi democratici, accertata dall’intelligence USA, per cui l’azienda stessa è stata chiamata a rispondere davanti alla commissione del Senato americano.
Facebook ha adottato alcune contromisure, ha iniziato ad assumere migliaia di addetti per contrastare le cosiddette fake news, ha provato ad utilizzare algoritmi per penalizzare i contenuti più faziosi, ma questo cambio radicale nell’utilizzo del social network assomiglia a una resa preventiva. Forse l’approccio usato finora per gestire in maniera indifferenziata così tanta gente e così tanti interessi ha raggiunto un suo limite naturale.
La soluzione algoritmica ha fallito, per ora non è possibile arginare i contenuti estremi in maniera automatica e probabilmente non è ancora disponibile un’intelligenza artificiale in grado di farlo. Allo stesso tempo forse Facebook non è così interessata a farlo, non si è mai considerata un editore e decidere cosa debba essere pubblicato e cosa no non è mai stato il suo core business.
Ora Zuckerberg ha indicato la strada originale del suo progetto, nella speranza di favorire le interazioni più forti tra individui e quelle tra familiari, più semplici da gestire, anche a costo di incidere sui notevoli numeri che sta ottenendo. Ma questa mossa potrebbe avere effetti collaterali importanti.
In primis, la qualità dei contenuti: se l’unico modo per emergere che avranno le aziende sarà quello di sponsorizzarli, la creatività e la qualità degli stessi potrebbe diventare meno rilevante a favore di aspetti più tecnici. Se questo da un lato farà aumentare il fatturato pubblicitario di Facebook, dall’altro potrebbe allontanare alcune aziende, le meno idonee o le meno attrezzate.
In generale l’approccio esposto da Zuckerberg, per esempio quando parla di community online associate a programmi TV e sport, sembra orientarsi verso prodotti di largo consumo, grandi brand e quindi cosiddetti big spender. Un approccio molto televisivo, sommato alla continua promozione dei video in diretta, che un paio di anni fa si rivelò dannoso per Twitter e da cui solo ora si sta lentamente riprendendo.
In secondo luogo i principali media informativi, che hanno scommesso molto su Facebook nella speranza di avvicinare nuovi lettori, si ritrovano improvvisamente tagliati fuori. Da un lato Facebook ha messo in piedi iniziative per creare un ambiente favorevole anche all’informazione mainstream, fino a permettere la completa gestione degli Instant Articles, dall’altro sta di fatto chiedendo maggiori investimenti pubblicitari per essere visibili alla loro stessa community o un cambio radicale di paradigma. Resisteranno gli editori e le aziende o emigreranno altrove?
Infine il cambiamento nei nostri Newsfeed, senza più marchi e prodotti, potrebbe portare a una sorta di guerriglia per la visibilità tra profili o tra gruppi: chi pubblica di più e chi genera più engagement con i propri contenuti (tramite condivisioni e commenti) diventa più visibile per i propri amici e per la rete intorno, a prescindere dalla qualità. Anzi, proprio i contenuti in grado di scatenare reazioni potrebbero essere quelli con maggiore coinvolgimento e quindi più visibili.
Al netto delle attività di controllo che Facebook ha messo in atto e dei prossimi aggiustamenti dell’algoritmo, potremmo notare un aumento della conflittualità e della polarizzazione, soprattutto in Italia in queste settimane di campagna elettorale. Sarebbe un risultato sostanzialmente opposto a quello prospettato da Zuckerberg.
di Luca Alagna
Qualità dei contenuti, presenza dei media informativi, strategie di diffusione dati: il rischio è un aumento della conflittualità e della polarizzazione
1 Comment