La Libia è, ormai storicamente, un paese scarsamente popolato e lacerato da continue lotte di potere tra gruppi armati, che si contendono il territorio e la legittimità.
Nei giorni scorsi nuove sommosse tra milizie rivali hanno inghiottito Tripoli, scuotendo il fragile governo appoggiato dalle Nazioni Unite. Mentre i razzi piovevano sulla capitale libica, una parte dei combattenti hanno preso i fucili e sono scesi in strada, l’altra ha effettuato l’accesso su Facebook. Una vera e propria battaglia parallela si è scatenata sui social, digitale ma non meno cruenta: sulle loro pagine Facebook, i gruppi rivali hanno postato provocazioni e minacce agghiaccianti, al colpo di notizie false, commenti odiosi e informazioni per aiutare i compagni sul campo di battaglia. “Il semaforo di Wadi al Rabi è esattamente a 18 chilometri dalla pista, il che significa che può essere bersagliata da un’artiglieria da 130 mm – ha scritto su Facebook un miliziano – Le coordinate sono allegate nella foto qui sotto”. Ecco come i social possono rispecchiare perfettamente la condizione di un paese: caos ma anche comunità, un fattore che può rilevarsi un moltiplicatore di forze.
FACEBOOK IN LIBIA
Facebook è sicuramente la piattaforma più popolare in Libia, usata per trovare gli avversari ed eliminarli, o per vantarsi delle imprese portate a termine sul campo di battaglia e far girare documenti contraffatti. Uno scenario del genere diventa senza dubbio rilevante per l’opinione pubblica, soprattutto in questo momento storico in cui Facebook è sotto esame in tutto il mondo per come riesce ad amplificare la manipolazione politica e la violenza. A luglio, la società ha iniziato a raccogliere informazioni dalle sue pagine su episodi in Sri Lanka, Myanmar e India, dove le voci online hanno portato alla violenza nella vita reale contro le minoranze etniche. La settimana scorsa, invece, il direttore operativo di Facebook, Sheryl Sandberg, ha difeso gli sforzi della compagnia per limitare la disinformazione e l’incitamento all’odio davanti al Comitato di Intelligence del Senato americano, dove ha testimoniato insieme a Jack Dorsey, amministratore delegato di Twitter.
Sulla situazione in Libia, Facebook continua a difendersi a oltranza, sottolineando il suo costante presidio della piattaforma. Come? Impiegando un team di revisori di contenuti di lingua araba per far rispettare la propria policy, sviluppando l’intelligenza artificiale per rimuovere preventivamente i contenuti vietati e collaborando con organizzazioni locali e gruppi internazionali per i diritti umani. Teoricamente tutto perfetto, ma nel frattempo l’attività illegale continua ad essere molto diffusa sulle pagine del Facebook libico.
Il New York Times ha più volte trovato prove del fatto che armi di grado militare vengono negoziate apertamente, nonostante le politiche della piattaforma che vietano tale commercio. I trafficanti di esseri umani pubblicizzano il loro successo nell’aiutare i migranti illegali a raggiungere l’Europa via mare, e usano le loro pagine per aumentare il volume di affari. Praticamente ogni gruppo armato in Libia, e persino alcuni dei suoi centri di detenzione, ha la sua pagina Facebook.
COME FUNZIONANO I MODERATORI?
Facebook impiega dei revisori in lingua araba – parte di un team globale che lavora in oltre 50 lingue – che estirpano contenuti illegali e proibiti sulle proprie pagine libiche. Ma i libici sono abili a eludere tali controlli: gli utenti spesso prendono screenshot di post violenti e li ridistribuiscono come immagini se il testo originale viene rimosso dai moderatori di Facebook.
Il social ha sviluppato strumenti per la ricerca di contenuti vietati, che i moderatori umani possono quindi rimuovere. Questi programmi hanno contrassegnato l’85 percento di “contenuti violenti”, ma il problema rimangono le violazioni più sottili come l’incitamento all’odio o le minacce violente, che sono raggiungibili dai moderatori solo se segnalate dagli utenti classici. Ciò può rallentare la rimozione, in particolare nelle aree in cui i locali potrebbero essere meno inclini a segnalare i post.
LA PRIMAVERA ARABA
Nel 2011, Facebook diede una grande mano alla liberazione della società civile libica dopo quattro decenni di dittatura del colonnello Gheddafi. Ma con il passare degli anni, le persone che hanno stimolato il conflitto hanno cominciato a utilizzare i social media come una delle loro armi più importanti nell’accendere focolai interni. Risultato? I sentimenti fortemente instabili e contrastanti dei libici nei confronti dei media. “Così tante volte negli ultimi sette anni – ha detto Mary Fitzgerald, una ricercatrice indipendente di base in Libia – ho sentito dire che se potessimo semplicemente chiudere Facebook per un giorno, la metà dei problemi del paese sarebbe risolta”.
Nei giorni scorsi nuove sommosse tra milizie rivali hanno inghiottito Tripoli, scuotendo il fragile governo appoggiato dalle Nazioni Unite. Mentre i razzi piovevano sulla capitale libica, una parte dei combattenti hanno preso i fucili e sono scesi in strada, l’altra ha effettuato l’accesso su Facebook.