Prendi uno dei più comuni processi democratici, uno di quelli di più antica tradizione politica, come ad esempio la selezione delle candidature al parlamento, mettilo dentro un complicatissimo sistema informatico di votazioni virtuali, e vedrai il casino che succede. E non c’è questione di competenza tecnica o di trasparenza dello staff incaricato di gestire le operazioni che tenga: il punto è che l’idea della democrazia online è qualcosa di molto simile alla corazzata Kotiomkin, c’è poco da fare.
Ma al di là della vicenda divertente raccontata dall’hashtag #annullatetutto a proposito delle parlamentarie del M5S, tocca liberare il dibattito pubblico dalle distorsioni cognitive legate alla cosiddetta democrazia diretta online.
Qui di seguito, 5 bias. Il primo: la rete crea un modello assimilabile alla democrazia diretta, capace di superare la crisi della democrazia di rappresentanza? Andando alla radice della questione, la criticità risiede nel suo presupposto: la democrazia non è in crisi, ma è di per sé governo della crisi. Anzi, la tensione continua tra l’azione politica e l’opinione pubblica è un indice di buona salute del sistema, perché è proprio questa frizione a tenere acceso il motore della circolazione delle idee e a frenare il rischio dell’arbitrarietà.
Il secondo: il principio “uno vale uno”. Se per uscire dalle procedure democratiche accusate di favorire la “tirannia della maggioranza” si sceglie di ricorrere a strategie di partecipazione extraelettorale, il rischio è che la decisione sia preda di una minoranza, che sia quella dalla voce più forte, oppure quella più colta, o quella che ha maggiore disponibilità di tempo, oppure più semplicemente quella che ha più facile accesso alla comunicazione.
II terzo: la trasparenza, che la rete consente, è una garanzia di chiara attribuzione di responsabilità? In realtà, la responsabilità diffusa corre il rischio di diventare un’irresponsabilità di fatto. Inoltre, la trasparenza, anziché essere il requisito per restituire potere ai cittadini, può portare paradossalmente alla paralisi decisionale.
Il quarto: la maggiore partecipazione che la rete consente restituisce il potere al popolo? Quello che in realtà cresce è solo il potere negativo, quello di controllo, la pars destruens dell’opinione pubblica, mentre quello di espressione e azione politica, che per sua natura rivendica il fare, si è diluito nella destrutturazione dell’intermediazione politica tradizionalmente esercitata dai partiti.
Infine, il quinto: la riduzione del processo politico all’approvazione o alla disapprovazione. Non è possibile relegare tutto a un sì o un no, a un like o a un dislike, soprattutto quando l’oggetto è una tematica complessa o controversa. Perché è vero che il digitale aumenta la possibilità di apprendimento e informazione, ma è ancora più vero che tra porre una questione e decidere sulla stessa vi è tutta una serie di passaggi intermedi imprescindibili di approfondimento, confronto e solo alla fine di eventuale approvazione.
Davvero pensiamo che tutto ciò possa ridursi al singolo click di singoli utenti? Evidentemente no, perciò servono i corpi intermedi e, dal momento che stiamo parlando di politica, ecco perché le formazioni politiche sono ancora necessarie.
È necessario liberare il dibattito pubblico dalle distorsioni cognitive sulla democrazia online. Davvero pensiamo basti un click?