Nel 1882 il senatore Carlo Torelli disegnò una carta geografia particolare: quella della malaria. Delle 69 province della penisola solo Imperia e Macerata non erano colpite. Degli allora 25 milioni di abitanti, 11 erano costantemente a rischio, di questi ultimi, 2 milioni ogni anno contraevano il morbo e 15 mila morivano. Questa era l’Italia: la Bella Addormentata come disse lo stesso senatore Torelli, parafrasò la fiaba. Le cronache dei viaggiatori raccontavano di un paese addormentato, persone afflitte dal morbo, sdraiate ai bordi delle strade, incapaci di alzarsi. Ma questo riguardava i più poveri (anche se il conte Cavour morì di malaria, e i salassi che gli praticarono in piena febbre peggiorarono le cose). Dopo un periodo di latenza (7-10 giorni dall’esposizione) ecco arrivare le febbri malariche con i famosi e tristi picchi, brividi, sudorazioni, cefalea, vomito, diarrea, delirio. Nel casi maligni morte per coma, stress respiratori o anemia profonda. Nei casi benigni, il morbo causava menomazioni croniche, splenomegalia (ingrossamento dell’addome), deperimento, anemia e rischio di degenerazioni in cachessia.
E naturalmente alta mortalità infantile e bassa aspettativa di vita: fra i braccianti agricoli nelle regioni italiane non colpite dalla malaria l’aspettativa di vita si aggirava intorno ai 35,7 anni, nelle aree malariche scendeva a 22,5 anni. “La malaria è la chiave di tutti i problemi economici del meridione e delle difficoltà croniche del settore agricolo italiano”, così disse l’allora ministro dell’Agricoltura, Giovanni Battista Miliani, nel 1918. Secondo i dati di Eugenio di Mattei, alla vigilia della Grande Guerra l’aspettativa di vita media dei braccianti agricoli nelle regioni italiane non colpite dalla malaria si aggirava intorno ai 35,7 anni, nelle aree malariche scendeva a 22,5 anni (interessantissimi e molto commoventi i suoi scritti, tra cui I lavoratori della terra e L’igiene sociale, utile lettura per tutti quelli che apprezzano il pane e i contadini di ieri ma solo perché mangiano comodamente il pane degli agricoltori di oggi).
La teoria allora in voga era quella quella miasmatica: avvelenamento dell’aria. Poi una serie di scoperte ed esperimenti, alcuni non proprio a norma, identificarono il vettore: la zanzara. Prima Alphonse Laveran, poi due medici italiani, Ettore Marchiafava e Angelo Celli, poi Camillo Golgi, che studiando il ciclo del parassita e infine Giovanni Grassi che tirò in ballo le zanzare anofele. Da allora l’Italia si mobilitò contro la zanzara. Una parte della nazione prese a cuore la questione povertà, l’ignoranza, le brutte abitazioni e le paludi. Fu una lotta dura. Bisognava superare le difficoltà che affliggevano il servizio sanitario locale: le principali sedi erano in città o nei grandi villaggi e una consistente parte della popolazione viveva in campagna non andava in città, anzi nemmeno sapeva a cosa era dovuta la malaria. Nelle stazioni rurali del nord (Verona fu in prima fila e quella stazione diventò il modello per le altre) i medici cominciarono a cercare gli ammalati casa per casa, annotarono ogni dato utile, compilarono accuratissimi registri, identificarono le zone più povere, i tragitti che in genere i braccianti seguivano per recarsi al lavoro: insomma siccome i poveri non andavano in clinica, le cliniche andarono dai poveri.
Le stazioni divennero così dei veri e propri ambulatori mobili, dislocati in loco, all’aperto (nei grandi latifondi) o nelle sagrestie delle chiese (dopo la messa domenicale), nei mercati, nelle feste rionali e nelle sagre popolari: un immenso e altruistico programma mirato alla ricerca del contatto con la gente. L’avvento del chinino di Stato, poi, probabilmente pose le basi di una medicina preventiva e sociale. E soprattutto ci furono centinaia di volontari, e tantissime donne (maestre che lasciarono le città per le campagne) affiancarono i medici e cercarono di convincere i contadini con grandi difficoltà a prendere le amare e costose pasticche di chinino, prodotte a Torino. Si trattò di una crociata contro la malaria: i medici usarono molte immagini cristiane e si descrivevano come apostoli, francescani, pellegrini, incaricati di diffondere il Vangelo. Tuttavia, nonostante l’uso di simboli cristiani l’orientamento politico dominante era di origine anticlericale, socialista e rivoluzionario: Angelo Celli, Tullio Rossi Doria, Pietro Castellino, Giuseppe Tropeano – tanto per citare alcuni leader – si rifacevano a Marx e Engels, e sostenevano che per sconfiggere la malaria era necessario garantire ai lavoratori un’adeguata istruzione, sufficiente nutrimento, condizioni igieniche idonee, giornate lavorative di otto ore e la possibilità di organizzarsi per poter difendere i propri diritti.
La lotta alla malaria si rivelò meno rapida del previsto e anche se il numero di morti cominciò a scendere già dopo l’inizio della campagna antimalarica, la battaglia fu dura anche perché si sottovalutarono due fattori: l’impatto sociale dell’infermità dovuta alla malaria e il nesso di casualità tra povertà ed estensione della malattia. Poi durante la Prima guerra mondiale il chinino divenne irreperibile e lo stesso accadde durante la Seconda guerra mondiale. Solo nel Dopoguerra si è riusciti nell’impresa di sradicare la malaria grazie un approccio multiplo: Piani quinquennali di irrorazione del DDT e soprattutto il miglioramento della condizioni ambientali, la fine del latifondismo, buona alimentazione, abitazioni migliori. Solo nel Dopoguerra si è riusciti nell’impresa di sradicare la malaria grazie un approccio multiplo: DDT (piani quinquennali di irrorazione del DDT) e soprattutto il miglioramento delle condizioni ambientali, la fine del latifondismo, l’introduzione di colture intensive delle aree più soggette alla malattie, buona alimentazione, abitazioni migliori e, in breve, la classica e mai paga lotta alla povertà.
Si potrebbe infine tracciare un linea che unisce il chinino ai diritti delle donne. Solo qualche anno più tardi toccò alle mondine combattere la guerra contro le zanzare (i termini risaia e malaria sono quasi sinonimi) e soprattutto l’indifferenza dei padroni verso le loro condizioni. I padroni di certo non pensavamo a migliorare la qualità degli alloggi (tutte a dormire ammassate negli stanzoni, una vera pacchia per le zanzare attratte dai corpi e dall’alta concertazione di anidride carbonica) né a garantire condizioni lavorative meno pesanti (se otto ore vi sembrano poche provate voi a lavorare e sentirete la differenza tra lavorare e comandare). Le mondine ricevevano mezzo chilo di pane e due razioni di polenta; metti la mancanza di acqua potabile, le paghe irrisorie, l’assenza di strutture per l’assistenza medica e dei normali impianti igienici, aggiungi che la maggior parte delle mondine proveniva dagli Appennini ed era dunque priva di qualsiasi immunità dalla malaria. Le mondine erano giovani donne, in età fertile, si ammalavano e trasferivano il morbo ai loro figli (un numero impressionante di aborti e malformazioni, neonati sottopeso con bassa aspettativa di vita).
Se oggi vi dovessero chiedere, qual è l’animale che uccide più persone? Trattenete le prime risposte: lo squalo, i serpenti, i leoni ecc. No. Nelle prime posizioni ci sono ancora le zanzare, la malaria è ancora causa di morte nei paesi poveri: 500 milioni di persone all’anno contraggono la malaria e mezzo milione di persone soccombe all’infezione. La malaria è stata un incubo ma ci siamo svegliati e abbiamo vinto, non addormentiamoci e non permettiamo all’incubo di tornare.