Come si misura lo spazio del dicibile in una società? Quali sono i criteri in base a cui si stabilisce cosa si può dire e cosa no, cosa è accettabile e cosa no, e come vengono – se possibile – rinegoziati nel tempo?
Se la società di cui parliamo è quella tedesca, è inevitabile che il cuore della questione, ciò a cui tutto per forza di cose viene ricondotto, sia rappresentato dal nazismo e dalla sua eredità simbolica.
Ed è proprio su questa eredità simbolica che si sta concentrando, in questi giorni, il dibattito sulla libertà di espressione nell’opinione pubblica tedesca, alimentato da due casi in particolare.
A inizio aprile, come ogni anno, sono stati assegnati gli Echo, premi che l’industria musicale tedesca assegna ai migliori artisti tedeschi e internazionali, e alle canzoni di maggiore successo. Quest’anno, nella categoria “miglior artista tedesco hip-hop/urban”, ha vinto la coppia di rapper formata da Kollegah e Farid Bang: già il giorno prima che il premio gli venisse consegnato, però, l’International Auschwitz Committee aveva espresso preoccupazione e sgomento.
In una delle sue canzoni, “0815”, il duo rap canta infatti “Mein Körper definierter als von Auschwitz-Insassen” [“il mio corpo più scolpito di quello dei reclusi ad Auschwitz”], una frase che il Committee ha definito “uno schiaffo in faccia a tutti i sopravvissuti dell’Olocausto e un momento vergognoso per la Germania”.
Anche sul palco degli Echo, poco prima che il duo ritirasse il premio, parole molto dure erano state a loro rivolte da Campino, frontman dei Toten Hosen, punk band leggendaria in Germania, secondo cui il riferimento ad Auschwitz è davvero troppo oltre. E non è finita lì: alcuni degli altri artisti vincitori, infatti, hanno deciso di ridare indietro il premio, come forma di protesta.
Kollegah (che tra l’altro, e forse non a caso, è anche un bodybuilder e un personal trainer) e Farid Bang hanno in qualche modo chiesto scusa e hanno preso le distanze da qualunque forma di antisemitismo e di odio verso le minoranze, ma naturalmente la questione rimane. Qual è il confine fra provocazione e offesa, fra protezione delle minoranze e censura? È lecito usare un messaggio provocatorio per rompere un tabù e stimolare il dibattito pubblico su una questione spinosa, o ci sono limiti che quasi per definizione non si possono superare?
Si tratta di una strategia politica precisa (magari non da parte di Kollegah e Farid Bang, ma da parte di partiti come AfD) che attraverso l’uso di “provocazioni” cerca di riportare nello spazio delle posizioni socialmente accettate anche quelle intolleranti – e intollerabili? E se invece un’operazione di questo tipo è compiuta essenzialmente per ragioni di marketing, il suo valore – se un valore ce l’ha – cambia? Se Kollegah usa un riferimento ad Auschwitz per fare in qualche modo pubblicità al suo programma di workout, è più o meno grave?
Il secondo caso ci porta invece a Costanza, nel sud della Germania, al confine con la Svizzera.
Venerdì 20 aprile si tiene nel teatro della città la première dello spettacolo Mein Kampf: la storia di un giovane pittore piuttosto privo di talento che cerca di essere ammesso all’Accademia delle Arti di Vienna, e del suo rapporto via via sempre più difficile con il suo coinquilino Schlomo Herzl, che cerca di aiutarlo in ogni modo nonostante la progressiva discesa del giovane artista in una spirale di paranoie e psicosi.
Ovviamente avrete intuito che il nome del giovane artista è Adolf Hitler – di cui, tra l’altro, il 20 aprile ricorre il compleanno, come puntualmente ci ricordano gli happening dei gruppi di estrema destra (ma questa è un’altra storia).
Fin qui nulla di strano, però: lo spettacolo, del commediografo ungherese George Tabori, è del 1987 ed è andato in scena numerose volte, anche in Germania, e nel 2009 ne è stato tratto anche un film.
Il problema è che i produttori stavolta hanno avuto un’idea: chi, per la durata dello spettacolo, accetterà di portare al braccio una fascia con sopra una svastica avrà il costo del biglietto rimborsato. Chi invece rifiuterà dovrà indossare una stella di David. L’obiettivo dei promotori è riaprire il dibattito intorno al pericolo dei rigurgiti neofascisti, ma naturalmente non sono mancate vivaci polemiche, e anche numerose denunce – visto che in Germania la legge proibisce la diffusione pubblica di simbologia legata al nazismo.
Ruth Frenk, a capo della locale Deutsch-Israelische Gesellschaft (“Società tedesco-israeliana”), ha pubblicato una lettera aperta, in cui l’iniziativa viene criticata duramente come un inaccettabile “colpo di marketing” e si ricorda che, oltre alle due opzioni presentate, ce n’è sempre una terza, e cioè non comprarlo proprio, il biglietto.
Il direttore del teatro di Costanza, Christoph Nix, ha però difeso la scelta riprendendo il tema del tabù da infrangere per rivitalizzare il dibattito, sottolineando tuttavia che certo non si ha alcuna intenzione di offendere la comunità ebraica.
Ma di nuovo: si tratta di una provocazione o, appunto, di un’offesa, per quanto magari non voluta? È accettabile, ad esempio, che per rivitalizzare il dibattito si costringa Ruth Frenk a indossare un simbolo riconoscibile come furono costretti a fare i suoi genitori, obbligati a portare la stella gialla nella Germania nazista?
Questi due casi, e le domande che si portano dietro, sono un esempio particolarmente rilevante dei problemi ancora aperti nel dibattito pubblico, dei punti critici in cui si incrociano la libertà di espressione e la censura, la rinascita di sentimenti nazionalisti e l’insofferenza verso un presunto politically correct, il diritto e il contesto, la storia e i simboli – punti critici che, nella società tedesca, rimandano sempre al Panzer nella stanza, la tragica esperienza che inevitabilmente è alla base della Germania contemporanea e del modo in cui comprende sé stessa.
Punti critici che in qualche modo orbitano sempre intorno alla questione, concreta e simbolica, dell’antisemitismo – come dimostra l’aggressione di un paio di giorni fa a Berlino ai danni di un ragazzo che indossava la kippah, il copricapo ebraico.
Come può reagire una società, e quella tedesca in particolare con la sua storia, di fronte a questi punti critici, di fronte a questi episodi?
Un editoriale della Frankfurter Rundschau suggerisce che, come gesto di sfida e di denuncia, potremmo tutti portare la kippah: magari non basta, eh, ma potrebbe essere un inizio.
Qual è il confine fra provocazione e offesa, fra protezione delle minoranze e censura? È lecito usare un messaggio provocatorio per rompere un tabù, o ci sono limiti che non si possono superare?