Il dibattito sul lavoro giovanile negli ultimi tempi sembra essere polarizzato su due posizioni: la prima è quella che vuole l’intera generazione che va dai trenta ai quaranta completamente bloccata, irrisolta, illusa dalle speranze del passato e derisa alla resa dei conti. Una generazione che è in grado di reinventarsi, però – e questa è la seconda posizione – e che, quando decide di farlo, risorge dalle ceneri dei propri sogni infranti. Due narrazioni intrise di romanticismo, per niente in contrapposizione tra loro, tutt’altro: l’una ha bisogno dell’altra.
Le critiche che stiamo muovendo da anni alla generazione dei nostri genitori sono sacrosante, ma non è raro leggere e ascoltare una certa confusione quando ci si imbatte in una discussione a proposito di lavoro e giovani: non si capisce quasi mai quale sia il punto su cui abbia senso lavorare, se sia la delusione o il riscatto, lo sconforto o la speranza. Si entra, spesso, in un vortice di autocommiserazione che, fatto salvo il momento in cui è giusto e naturale leccarsi le ferite, sembra diventare l’unico motore di quella voglia di innovazione che dovrebbe traghettare la mia generazione a guidare il cambiamento.
In realtà, scopriamo che non si tratta di un fenomeno solo italiano, ma che più o meno in tutto il mondo sembrano esistere centinaia di giovani innovatori allo sbaraglio. Penso, ad esempio, alla narrazione delle startup, e al modo in cui le startup ci vengono raccontate.
Al netto di quei pochi che ce la fanno, i cui fondatori conquistano la scena, fanno parlare di sé e ci fanno sognare quando, ospiti di eventi di respiro internazionale, raccontano di come hanno innovato non il prodotto o il servizio, ma il modello di lavoro.

Daniel Ek, fondatore di Spotify
Decine di articoli al mese, contemporaneamente, spiegano agli startupper dove stanno sbagliando, come si fa a reinventarsi imprenditori, come tenere a freno le manie di controllo, di cos’è che hanno realmente bisogno. Sembra sfuggire completamente il senso di quello che stanno facendo, che il più delle volte non è inventare un nuovo prodotto o servizio, ma contribuire alla creazione di un nuovo ecosistema produttivo: insomma, proprio quell’unico messaggio che i giovani startupper dovrebbero apprendere da quelli che ce l’hanno fatta, prima di fare il salto.
Un articolo di Mashable di poche settimane fa spiega ai giovani startupper di cosa hanno bisogno per diventare un caso di successo e non fallire, come è accaduto a tantissimi. I punti sono tre: investi nelle persone, imponi flessibilità, studia. Fa impressione che sia Mashable a dover dire agli startupper che sono queste le loro priorità, perché, al netto dell’idea del nuovo prodotto/servizio, sono esattamente questi tre punti quelli che spingono la gran parte dei giovani a creare la propria startup, lasciare la certezza del posto fisso e della struttura classica aziendale.
Poi, però, non sono in grado di ricordarsi che è esattamente quello l’orizzonte che li ha ispirati a fare il salto, e non una nuova app, un nuovo servizio, un nuovo prodotto.

da Mashable
È chiaramente impossibile fare un discorso generalizzato a tutti gli startupper italiani e, a maggior ragione, del mondo, però è innegabile che l’attenzione sia troppo spesso spostata sulla retorica della generazione che si lecca le ferite inventando nuovi mestieri, invece di raccontare della generazione che ha le forze per fare piazza pulita di modelli vecchi perché è la prima generazione a sentirne davvero il bisogno.
E a questo proposito, il direttore de Linkiesta, Francesco Cancellato insiste, nel suo Né sfruttati, né bamboccioni, su un punto sacrosanto: “Nessuna questione generazionale potrà mai essere risolta fino a che non si capirà che è una questione generale, di modello di sviluppo, di architettura del welfare, di forma dello Stato, di rapporto con il mondo”. Significa, in parole povere, che non bastano incentivi o bonus, non serve tanto aggiungere punti di un’agenda politica, senza porsi il problema di quanto e come rivoluzionare la direzione stessa in cui va quell’agenda.
Una soluzione immediata, a portata di mano, in grado di dare una direzione chiara e concreta all’agenda generazionale, oggi non c’è. Ma non è detto che sia un male, anzi. Sempre Cancellato: “che ci crediate o meno, è un’ottima notizia, questa, per almeno tre ragioni. La prima: perché sapere che una soluzione non esiste ci evita di perdere un sacco di tempo alla ricerca della bacchetta magica. La seconda: perché se non c’è bacchetta magica, non c’è modo di fare in fretta. E se non c’è modo di fare in fretta, abbiamo guadagnato un sacco di tempo per fare le cose per bene. La terza: perché se decidiamo di fare le cose per bene, possiamo permetterci il lusso di puntare altissimo, di assumere pienamente il carattere olistico della questione generazionale, del suo essere questione di questioni, centro di gravità e punto d’intersezione di tanti, se non tutti i problemi di questo disgraziato paese”.
Possiamo permetterci il lusso di puntare altissimo è la cosa più vera e sensata letta in proposito negli ultimi tempi perché rompe il muro del pianto e ci invoglia a fare le cose per bene: quando si punta in alto si ha bisogno di fondamenta solide, e se ai trenta-quarantenni tocca costruire le fondazioni, forse è il caso di cominciare a sognare in grande. Ce lo possiamo permettere.
Rompere il muro del pianto: quando si punta in alto si ha bisogno di fondamenta solide, e se ai trenta-quarantenni tocca costruire le fondazioni, forse è il caso di cominciare a sognare in grande. Ce lo possiamo permettere