COME STA IL MONDO? SEMPRE MEGLIO
un numero crescente di intellettuali e accademici dice che ci sono buone ragioni per essere ottimisti

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The Long Read è la sezione del The Guardian che si occupa di “In-depth reporting, essays and profiles”. Dalla psicologia al cibo, passando per la tecnologia, la cultura e il crimine, la rubrica si è dimostrata un’eccellenza giornalistica vincendo i Webby Award nel 2015. Venerdì 28 luglio ha pubblicato un articolo scritto da Oliver Burkeman sui nuovi ottimisti.
Alla fine dell’anno scorso, chiunque avesse letto anche di sfuggita i titoli dei giornali si sarebbe convinto che viviamo in un momento terribile e che l’unico atteggiamento sensato da tenere sia un pessimismo profondo – temperato, forse, da un cinico umorismo, basato sul principio che se il mondo sta davvero andando all’inferno possiamo almeno provare a goderci il viaggio. Naturalmente, per molti incombeva lo spettro della Brexit e dell’elezione di Donald Trump. Ma non è necessario essere un remainer o criticare Trump per sentirsi depressi dalla carneficina in Siria, dalla morte di migliaia di migranti nel Mediterraneo, dai test missilistici nordcoreani, dalla diffusione del virus zika o dagli attacchi terroristici a Nizza, in Belgio, in Florida, in Pakistan e altrove, né dallo spettro di un cambiamento climatico catastrofico che si nasconde dietro tutte queste vicende – e a tutto questo va anche aggiunta la morte di tutta una serie di amate celebrità che sembrava un tentativo calcolato di strofinare il sale sulla ferita: nel giro di pochi mesi sono morti David Bowie, Leonard Cohen, Prince, Muhammad Ali, Carrie Fisher e George Michael, per citarne solo una manciata. Anche i pochi titoli del 2017 finora – la Grenfell Tower, gli attacchi di Manchester e Londra, il caos di Brexit e Trump ventiquattr’ore su ventiquattro – non forniscono certo motivi per guardare al mondo con più ottimismo.
Eppure c’è un gruppo di commentatori illustri che è sembrato il solo immune a questa oscurità. Nel dicembre scorso, in un articolo intitolato “Never forget that we live in the best of times“, l’editorialista del Times Philip Collins, ha compilato una lista di fine anno che racchiudeva i motivi per essere felici: nel 2016 per la prima volta la parte di popolazione nella povertà estrema è scesa al di sotto del 10%, le emissioni globali di carbonio da combustibili fossili non sono aumentati per il terzo anno consecutivo, la pena di morte è stata giudicata illegale in più della metà dei paesi al mondo e i panda giganti sono stati rimossi dalla lista delle specie in pericolo.
Sul New York Times, Nicholas Kristof ha dichiarato che il 2016 è stato di gran lunga l’anno migliore nella storia dell’umanità grazie a calo dell’ineguaglianza globale, alla mortalità quasi dimezzata rispetto al 1990 e alle 300.000 persone in più che ogni giorno hanno accesso all’elettricità. Durante il 2016 e nel 2017, accanto a Collins, l’autore ed ex presidente della Northern Rock Matt Ridley – il titolo del suo libro Ottimisti e Razionali, rende chiare le sue inclinazioni – ha continuato la sua produzione settimanale di rubriche entusiaste che inneggiano al futuro dell’intelligenza artificiale, al libero commercio e al fracking. Mentre sullo Spectator Brendan O’Neill, contestatore professionale, dava la sua versione della storia – “Niente riassume meglio l’indifferenza della classe dei ciarlieri… che il loro blaterare sul fatto che il 2016 è stato il peggior anno di sempre” – il punto di vista stava diventando sufficientemente tanto ben affollato che O’Neill ha rischiato di perdere il suo primato.
La raccolta di esperti, accademici e operatori di think tank che sostengono questo cocciuto, allegro, non infernale resoconto, sono stati occasionalmente etichettati come “i Nuovi Ottimisti”, un nome destinato ad evocare lo scetticismo ribelle dei nuovi ateisti guidati da Richard Dawkins, Daniel Dennett e Sam Harris. E dal loro punto di vista, il nostro umore disperato è irrazionale e francamente anche un po’ autoindulgente. Loro sostengono che questo modo di vedere le cose ci dice più su di noi che su come le cose stanno veramente – mostrando una certa tendenza verso l’auto-flagellazione collettiva e una riluttanza a credere nel potere dell’ingegno umano. Questa tendenza trova giustificazione nei vari bias psicologici che ci portiamo dietro direttamente dalla savana preistorica ma ora, in un’era saturata dai media, non fa altro che confonderci costantemente.
“Una volta era estremamente importante per la nostra sopravvivenza essere preoccupati di tutto quello che poteva andare storto”, dice Johan Norberg, uno storico svedese autodichiaratosi nuovo ottimista e il cui libro “Progress: Ten Reasons to Look Forward to the Future” è stato pubblicato poco prima che Trump vincesse le elezioni. Le cattive notizie sono molto interessanti per il motivo spiegato da Norberg: nel nostro passato evolutivo era una cosa positiva che la nostra attenzione potesse essere facilmente catturata da informazioni negative, perché poteva segnalare un rischio imminente per la sopravvivenza – il cavernicolo che ha sempre dato per scontato che ci fosse un leone dietro la roccia successiva poteva sbagliarsi, semmai, ma probabilmente sarebbe riuscito a sopravvivere e riprodursi molto più di chi ha sempre assunto l’opposto. Ma questo avveniva prima dei giornali, della televisione e di internet: in quest’era iper-connessa, la nostra dipendenza dalle cattive notizie ci porta solo ad assorbire storie deprimenti o enigmatiche provenienti da tutto il mondo anche se non ci minacciano direttamente, per questo pensiamo che le cose sono molto peggiori di quanto siano.
Le notizie veramente buone, d’altra parte, possono essere molto più difficili da individuare, in parte perché tendono a verificarsi gradualmente. Max Roser, economista di Oxford che diffonde il nuovo canto ottimista tramite il suo feed Twitter, ha recentemente sottolineato che negli ultimi 25 anni i giornali avrebbero potuto usare ogni giorno a buon diritto il titolo “Il numero delle persone in estrema povertà ieri è sceso di 137.000”. Ma nessuno lo ha mai fatto, perché gli eventi quotidiani prevedibili, per definizione, non fanno notizia. E raramente vedremo un titolo su un evento che non è accaduto. Ma qualunque valutazione della nostra situazione dovrebbe tener conto di tutte le guerre, pandemie e disastri naturali che potrebbero accadere ipoteticamente oppure no?
“Io stesso ero pessimista”, dice Norberg, un 43enne urbano, cresciuto a Stoccolma, che è ora membro del Cato Institute di Washington DC. “Ho desiderato a lungo i vecchi tempi. Ma poi ho iniziato a leggere la storia e mi sono chiesto: dove sarei stato in quei bei vecchi tempi, nella Svezia dei miei antenati? Probabilmente non sarei stato da nessuna parte. L’aspettativa di vita era troppo breve. Mettevano la corteccia dell’albero nel pane, per farlo durare più a lungo! “
Nel suo libro, Norberg propone 10 dei più importanti indicatori fondamentali della prosperità umana – cibo, servizi sanitari, aspettativa di vita, povertà, violenza, stato dell’ambiente, alfabetizzazione, libertà, uguaglianza e condizioni dell’infanzia. L’autore prova un piacere particolare nel reprimere le fantasie di chiunque abbia il desiderio di essere nato un paio di secoli fa: non è passato così tanto tempo, osserva, da quando i cani mordevano i cadaveri delle vittime di peste, abbandonati nelle strade delle città europee. E poco tempo è passato dal 1882, quando solo il 2% delle case a New York aveva acqua corrente. Nel 1900 poi, l’aspettativa di vita in tutto il mondo era un insignificante 31 anni, grazie sia alla morte precoce degli adulti che alla mortalità infantile dilagante. Oggi, invece, è di 71 anni e si soffre anche meno. Ad un certo punto Norberg scrive, nella sua variante sul refrain preferito dai nuovi ottimisti: “Nei 20 minuti che ti occorrono per leggere questo capitolo quasi altre 2.000 persone saranno uscite dalla povertà estrema”.
Questo sbarramento di statistiche ottimiste sembrano destinate ad avere l’effetto di demolire i soliti disaccordi politici insopportabili sullo stato del pianeta. I nuovi ottimisti ci invitano a dimenticare i nostri biasioni partigiani e le lealtà tribali, a fare a meno delle nostre piccole teorie su ciò che è sbagliato nel mondo e su cosa si deve fare, e respirare, invece, l’aria rinfrescante dei dati oggettivi. I dati non mentono. Guarda i numeri!
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I numeri – si scopre – possono essere politici, come ogni altra cosa.
I Nuovi Ottimisti sulla nostalgia di certo non sbagliano: nessuna persona sana di mente dovrebbe desiderare di aver vissuto in un secolo precedente. Il 65% dei cittadini britannici – e l’81% dei francesi – ha dichiarato in un’indagine del 2015 di YouGov, che pensava che il mondo stesse peggiorando. Ma, secondo numerose metriche sensibili, queste persone si sbagliano. In realtà, stiamo uscendo dalla povertà estrema ad una velocità straordinaria, la mortalità infantile è davvero crollata, gli standard di alfabetizzazione, igiene e aspettativa di vita non sono mai stati più alti. La media degli Europei e degli Americani gode di lussi che i sovrani medievali letteralmente non avrebbero mai potuto immaginare. La conclusione principale a cui è giunto Steven Pinker nel suo libro del 2011, The Better Angels of Our Nature, un testo di riferimento fondamentale per i nuovi ottimisti, sembra essere stata ampiamente accettata: viviamo nell’epoca più pacifica della storia, con la violenza di tutti i tipi – dai morti In guerra al bullismo nel cortile scolastico – in forte calo.
Ma i Nuovi Ottimisti non sono interessati a convincerci che la vita umana è soggetta a molte meno sofferenze di qualche centinaio di anni fa. Probabilmente anche un pessimista tesserato ne sarebbe convinto. Incastonate all’interno di questa affermazione sostanzialmente indiscutibile, ci sono diverse implicazioni più controverse. Ad esempio: dato che chiaramente le cose stanno andando per il meglio, abbiamo buone ragioni per supporre che continueranno a migliorare. E inoltre – anche se questa è una rivendicazione solo talvolta esplicita nel lavoro dei Nuovi Ottimisti – dato che quello che abbiamo fatto in questi ultimi decenni sta chiaramente funzionando, l’assetto politico ed economico che ci ha portati fin qui è da mantenere. Ottimismo, dopo tutto, significa qualcosa di più che credere che la situazione non sia così cattiva come immaginiamo: significa avere una fiducia giustificata sul fatto che le cose presto miglioreranno. Ha scritto Ridley dopo la crisi finanziaria del 2007/2008: “l’ottimismo razionale afferma che il mondo si allontanerà dalla crisi attuale grazie al modo in cui i mercati di beni, servizi e idee permettono agli esseri umani di scambiarsi e specializzarsi onestamente per il miglioramento di tutti… Sono un ottimista razionale: razionale, perché sono arrivato all’ottimismo non attraverso temperamento o istinto, ma osservando le prove “.
Se tutto questo fosse vero, vorrebbe dire che stiamo sprecando una parte rilevante dell’energia che dedichiamo alla discussione sullo stato dell’umanità – tutta l’indignazione politica, gli annunci di un imminente disastro, gli editoriali esasperati, tutte le nostre ansie e colpe, la miseria che affligge le persone in tutto il mondo. O, peggio, questa discussione potrebbe essere controproducente, perché credere che le cose siano irrimediabilmente terribili sembra un modo sbagliato per motivarci a rendere le cose migliori – e perciò si corre il pericolo che diventi una profezia autoavverante.
“Ecco i fatti”, ha scritto l’economista americano Julian Simon, la cui forte opposizione alle oscure previsioni degli ambientalisti e dei demografi degli anni ’70 e ’80 ha messo le basi per i Nuovi Ottimisti di oggi. “In media, le persone di tutto il mondo vivono più a lungo e mangiano meglio di prima. Molte meno persone muoiono di fame oggi rispetto ai secoli precedenti… ogni singola misura di benessere materiale e ambientale negli Stati Uniti è migliorata invece di deteriorarsi. Questo vale anche per il mondo considerato nel suo complesso. Tutte le tendenze a lungo termine indicano la direzione esattamente opposta alle proiezioni dei catastrofisti”.
Questi sono i fatti. Allora perché non siamo tutti Nuovi Ottimisti adesso?
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È almeno dal 1710 che gli Ottimisti dicono ai profeti di sventura di rallegrarsi, da quando il filosofo Gottfried Leibniz ha concluso che il nostro deve essere il migliore di tutti i mondi possibili, perché Dio, essendo perfetto e misericordioso, semplicemente non ne avrebbe mai creato uno piuttosto mediocre. Ma l’esplosione più recente di positività può essere meglio interpretata come una reazione al pessimismo scatenato dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Per prima cosa, quegli attacchi sono stati un esempio da manuale del tipo di cattiva notizia ad alta visibilità che attiva i nostri bias cognitivi. Ci hanno convinti che il mondo sta diventando mortalmente pericoloso quando non è vero: in realtà un numero leggermente più alto di americani è stato ucciso in incidenti motociclistici nel 2001, rispetto ai morti nel World Trade Center e sugli aerei dirottati.
Ma il nuovo ottimismo è anche una controreplica al tipo di introspezione che ha guadagnato terreno in Occidente dopo l’11 settembre e per la guerra in Iraq. Quella sensazione che – sia o no colpa nostra la nuova insicurezza globale – è necessario comunque un approccio auto-critico e riflessivo, piuttosto che semplicemente una più stridente affermazione della nostra visione del mondo – “Il mondo intero ci odia, e ce lo meritiamo“, che è come il filosofo francese Pascal Bruckner definisce in modo sfacciato questo atteggiamento. Al contrario, gli Ottimisti insistono, i dati dimostrano che il dominio globale del potere e delle idee occidentali nel corso degli ultimi due secoli ha visto un miglioramento progressivo nella qualità della vita di quasi tutti gli uomini. Matt Ridley ama citare un predecessore degli Ottimisti contemporanei, lo storico Whig Thomas Babington Macaulay: “Su quale principio si basa la nostra idea che, quando non vediamo nient’altro che un miglioramento alle nostre spalle, non dobbiamo aspettarci altro che un peggioramento davanti a noi?”
L’autocritica avvilente che frustra i Nuovi Ottimisti è alimentata in parte – almeno secondo la loro idea – da una sorta di illusione ottica nel modo in cui pensiamo al progresso. Come osserva Steven Pinker, ogni volta che siamo impegnati a giudicare i governi o i sistemi economici su quanto non raggiungano standard adeguati, perdiamo di vista con troppa facilità come gli stessi standard sono cambiati nel corso del tempo. Siamo scandalizzati dalle segnalazioni dei prigionieri torturati dalla CIA ma questo avviene solo grazie alla nascita storicamente recente di un consenso generale sul fatto che la tortura è inaccettabile – nell’Inghilterra medievale, ad esempio, era una caratteristica relativamente irrilevante nel sistema della giustizia penale. Possiamo essere spaventati dalle morti dei migranti nel Mediterraneo solo perché partiamo dalla posizione che degli sconosciuti stranieri, provenienti da terre lontane, sono degni di considerazione morale, un’idea che probabilmente la maggior parte di noi avrebbe ritenuto assurda se fossimo nati nel 1700. Tuttavia, più questo tipo di consenso cresce, più ogni violazione di esso sembrerà inconcepibile. E così, abbastanza ironicamente, l’indignazione che sentiamo quando leggiamo i titoli dei giornali è in realtà una prova che questo è un momento magnifico per essere vivi – una recente aggiunta alla libreria dei Nuovi Ottimisti, The Moral Arc di Michael Shermer, lega direttamente questa tesi alla fede nella scienza dell’ottimista: è il progresso scientifico, afferma, che è destinato a renderci sempre più etici.
Il sospetto fastidioso che questa argomentazione sia in qualche modo basata su un escamotage – reinterpretare qualsiasi indignazione come prova del nostro miglioramento – è che possa condurci ad un’altra obiezione: anche se è vero che tutto è davvero meglio di come lo è mai stato, perché le cose continueranno a migliorare? I miglioramenti nei servizi igienici e nell’aspettativa di vita non possono impedire che i crescenti livelli del mare distruggano un paese. Ed è pericoloso, più in generale, prevedere i risultati futuri attraverso le prestazioni passate: guardando le cose in una scala temporale sufficientemente lunga diventa impossibile sapere se i progressi che i Nuovi Ottimisti celebrano sono la testimonianza della costante traiettoria verso l’alto della storia o solo un soffio.
Quasi ogni avanzamento che Norberg raccoglie nel suo libro Progress, ad esempio, è avvenuto negli ultimi 200 anni – un fatto che per gli Ottimisti prova l’inarrestabile potenza della civiltà moderna, ma che potrebbe altrettanto essere preso come prova di quanto rari siano tali periodi di avanzamento. Gli esseri umani sono esistiti per 200.000 anni, eliminarli dall’orizzonte temporale di 200 anni sembra poco saggio. Rischiamo di commettere l’errore dello storico britannico ottocentesco Henry Buckle, che ha dichiarato nel suo libro sulla storia della civiltà in Inghilterra, che la guerra sarebbe stata una cosa del passato. “Che questo barbaro perseguimento sia, nel progresso della società, in costante diminuzione, deve essere evidente, anche al lettore più affrettato della storia europea”. Era il 1857, Buckle sembrava fiducioso che la guerra di Crimea appena finita sarebbe stata una delle ultime.
Ma la vera preoccupazione non è che il progresso costante degli ultimi due secoli gradualmente verrà ricacciato indietro, portandoci di nuovo alle condizioni del passato. È che il mondo che abbiamo creato – il motore stesso di tutto questo progresso – è così complesso, volatile e imprevedibile che una catastrofe ci potrebbe essere in qualsiasi momento. Steven Pinker può avere assolutamente ragione sul fatto che sempre meno persone stanno ricorrendo alla violenza per risolvere le proprie dispute, ma – come riconoscerebbe anche lui – servirebbe anche un solo narcisista arrabbiato in possesso dei codici nucleari per scatenare un disastro globale. La tecnologia digitale ha indubbiamente contribuito ad alimentare un aumento mondiale della crescita economica, ma se il mese prossimo i cyberterroristi la utilizzassero per distruggere l’infrastruttura finanziaria del pianeta, tale crescita potrebbe diventare piuttosto rapidamente irrilevante.
“Il punto è che se qualcosa va seriamente male nelle nostre società, è veramente difficile vedere dove si ferma”, afferma David Runciman, professore di politica presso l’Università di Cambridge, che ha una visione meno rosea del futuro e che ha discusso con i Nuovi ottimisti come Ridley e Norberg. “Il pensiero che, ad esempio, la prossima crisi finanziaria, in un mondo interconnesso e guidato algoritmicamente come il nostro, potrebbe semplicemente sfuggire dal nostro controllo – non è un pensiero irrazionale. Questo rende molto difficile essere ottimisti”. Quando vivi in un mondo in cui tutto sembra essere migliore, ma potrebbe crollare domani, è perfettamente razionale farsi prendere dal panico.
Runciman solleva un pensiero correlato e altrettanto preoccupante della politica moderna, nel suo libro The Confidence Trap. La democrazia sembra fare bene: i Nuovi Ottimisti notano che ora esistono circa 120 democrazie tra i 193 paesi del mondo, passando da sole 40 nel 1972. Ma cosa accadrebbe se fosse la forza della democrazia – e la nostra soddisfazione per la sua capacità di sopportare quasi qualsiasi cosa – a preparare il suo eventuale collasso? Potrebbe essere che il nostro vero problema non sia un eccesso di pessimismo, come sostengono i Nuovi Ottimisti, ma un pericoloso grado di presunzione?
Secondo questa tesi, le persone che hanno votato per Trump e la Brexit non lo hanno davvero fatto perché hanno pensato che il sistema era sbagliato e doveva essere sostituito. Al contrario: votavano proprio perché erano diventati troppo fiduciosi che la sicurezza necessaria fornita dal governo sarebbe sempre esistita, qualunque sia stata la scelta incendiaria che avevano fatto al ballottaggio. La gente ha votato per Trump “perché non gli credevano”, ha scritto Runciman. “Volevano che Trump scuotesse un sistema capace anche di proteggerli dalla sconsideratezza di un uomo come Trump”. Il problema con questo schema – produrre shock elettorali perché il sistema può resistere – è che non c’è ragione di supporre che si possa continuare indefinitamente: a un certo punto, i danni potrebbero non essere più riparabili. I Nuovi Ottimisti “descrivono un mondo in cui gli agenti umani non sembrano essere importanti, perché ci sono queste forze evolutive che ci stanno muovendo nella giusta direzione”, dice Runciman. “Ma gli agenti umani importano ancora… gli esseri umani hanno ancora la capacità di rovinare tutto. Ed è anche possibile che la nostra capacità rovinare le cose stia crescendo “.
Gli Ottimisti non ignorano tali rischi ma una caratteristica affidabile della mentalità ottimista è trovare un’interpretazione favorevole di fatti apparentemente spaventosi. “Stai chiedendo: sono l’uomo che cade da un grattacielo e, mentre passa davanti al secondo piano, dice: finora, tutto bene?”, dice Matt Ridley. “E la risposta è che, in realtà, in passato la gente ha previsto catastrofi che erano proprio dietro l’angolo e ha sbagliato così spesso che questo è un fatto rilevante da tenere in conto”. La storia sembra supportare Ridley. Poi, naturalmente, se in realtà si fosse verificata una catastrofe che avesse messo fine alla civiltà, probabilmente non avremmo potuto leggere ora i suoi libri. Le persone che prevedono catastrofi imminenti di solito si sbagliano. D’altra parte, hanno bisogno di avere ragione solo una volta.
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Se c’è un singolo momento che ha segnato la nascita del Nuovo Ottimismo – ovviamente, in un certo qual modo – è stato quello in cui si è tenuta nel 2006 la TEDTalk dello statistico svedese ed edutainer Hans Rosling, morto all’inizio di quest’anno. Dal titolo “Le migliori statistiche mai viste“, la micro-conferenza di Rosling ha riassunto i risultati di un ingegnoso studio condotto tra studenti universitari svedesi. Presentando loro alcune coppie di paesi – Russia e Malesia, Turchia e Sri Lanka e così via – lo studio ha chiesto agli studenti di indovinare chi avesse un punteggio migliore in varie misure in materia di salute, come i tassi di mortalità infantile. Gli studenti, come ci si aspettava, hanno sbagliato, avendo basato le proprie risposte sull’ipotesi che i paesi più vicini al proprio, sia geograficamente che etnicamente, potessero essere i migliori.
Rosling infatti aveva scelto le coppie di paesi per dimostrare una cosa: la Russia aveva due volte la mortalità infantile della Malesia e la Turchia due volte quella dello Sri Lanka. Parte della mentalità disfattista dell’Occidente moderno – almeno per come la vedeva Rosling – era l’ipotesi profondamente radicata che oggi stiamo vivendo tempi migliori di quelli che verranno e che il futuro che stiamo lasciando alle prossime generazioni, e in particolare al mondo oltre l’Europa e l’America settentrionale, può essere solo scoraggiante. Rosling si divertiva ad osservare che se avessimo condotto lo stesso esperimento su alcuni scimpanzé, scrivendo su una banana il nome di ogni paese e invitando i primati a sceglierne una, di sicuro sarebbero riusciti a fare meglio degli studenti, dato che, per caso, avrebbero avuto ragione la metà delle volte. Alcuni Europei umani e ben educati, al contrario, hanno fatto molto peggio del caso. Non ignoriamo semplicemente i fatti, siamo attivamente convinti di fatti deprimenti che non sono veri.
È esilarante guardare oggi “Le migliori statistiche mai viste”, in parte per l’imbranata, altamente energica performance scenica di Rosling, ma anche perché sembra far risplendere la luce dei fatti oggettivi su questioni di solito impantanate in una feroce faziosità. Molto più di allora, oggi viviamo nella Age of Take, in cui un’apparentemente infinita serie di post su blog, colonne opinionistiche, libri e testate televisive competono per spiegarci come sentirci riguardo le notizie che apprendiamo. La maggior parte di queste opinioni si concentra meno sul raccogliere fatti solidi a favore di un argomento, che dichiarare quale atteggiamento dovremmo adottare: il tipico take giornalistico ci invita a concludere che Donald Trump è un fascista o no, che i presentatori della BBC sono strapagati o che la nostra pratica yoga è soltanto un appropriazione culturale. Di questo non dovremmo affatto sorprenderci: l’internet economy è alimentata dall’attenzione, ed è molto più facile attirare l’attenzione di qualcuno con argomenti emotivamente carichi che con una semplice informazione – in più non dobbiamo neanche pagare per un costoso lavoro giornalistico destinato a stanare i fatti. I Nuovi Ottimisti promettono qualcosa di diverso: un modo di percepire come sta il mondo, basato sul modo in cui davvero il mondo sta.
Dopo un’immersione nel loro lavoro, cominciamo a chiederci se tutti questi aneddoti ottimisti parlino per se stessi. Prima di tutto, perché supponiamo che il corretto confronto da fare sia quello tra il mondo com’era 200 anni fa – ad esempio – e com’è oggi? Potremmo sostenere che confrontare il presente con il passato stia confondendo le carte. Naturalmente le cose vanno meglio che in passato ma sicuramente non vanno neanche lontanamente bene rispetto a come dovrebbero essere. Utilizzando alcuni esempi ovvi, possiamo dire che senza dubbio l’umanità ha la capacità di eliminare la povertà estrema, mettere fine alle carestie o ridurre radicalmente i danni che l’uomo provoca al clima. Ma non abbiamo fatto nessuna di queste cose e il punto che la vita non è così terribile quanto lo era nel 1800 probabilmente è un altro discorso.
Ironicamente, data la loro dipendenza dai bias cognitivi per spiegare la nostra predilezione per la negatività, i Nuovi Ottimisti sono forse anche loro nella morsa di un altro bias: l’anchoring bias, che descrive la nostra tendenza a fare troppo affidamento su determinati pezzi di informazione quando diamo giudizi. Se partiamo dal fatto che le vittime della peste una volta languivano nelle strade delle città europee, è naturale concludere che nella nostra epoca la vita è meravigliosa. Ma se si parte dalla posizione per cui avremmo potuto eliminare le carestie o invertire il riscaldamento globale, il fatto che tali problemi persistano può provocare un diverso tipo di giudizio.
L’argomentazione basata sul fatto che dobbiamo sentirci più felici perché nel suo complesso la vita del pianeta sta migliorando non comprende, inoltre, una verità fondamentale su come funziona la felicità: i nostri giudizi del mondo si traducono nel fare confronti specifici su cose che sentiamo rilevanti per noi, non nell’adottare quello che David Runciman chiama the view from outer space. Se le persone della nostra piccola città americana sono economicamente molto meno sicure del passato, o se sono un giovane britannico che lotta con la prospettiva di non riuscire mai possedere una casa, non è particolarmente consolante dire che sempre più Cinesi raggiungono lo status di classe media. In alcuni reading fatti nel Midwest degli Stati Uniti, ricorda Ridley, il pubblico spesso mette in dubbio il suo ottimismo basandosi sul fatto che la propria vita non sembra avere in una traiettoria ascendente. “Dovrebbero dire: continui a dire che il mondo sta migliorando, ma qui non sembra così. E io risponderei: sì, ma questo non è il mondo intero! Non sei ancora un po’ felice del fatto che gli africani davvero poveri stiano diventando un po’ meno poveri?”. C’è un senso in cui questo è un punto di vista giusto. Ma c’è un altro senso in cui è completamente irrilevante.
Nel suo cuore, il Nuovo Ottimismo è un argomento ideologico: in linea di massima, quelli che lo propongono sostengono il potere del libero mercato e giustificano le loro politiche con il loro quadro positivo del passato recente dell’umanità e del futuro imminente. Questo è un argomento politico perfettamente legittimo da sostenere – ma è ancora un argomento politico, non un semplice e neutrale affidarsi a fatti oggettivi. L’affermazione che stiamo vivendo in un’era d’oro e che il nostro umore pessimista dominante è ingiustificato, non è un antidoto alla Age of Take, ma un take come qualsiasi altro – e ha altrettanto senso adottare il punto di vista contrario. “Quello che non amo”, dice Runciman, “è il presupposto che se ci si oppone alle loro tesi, sostieni che non vale la pena valorizzare tutte queste cose… Per le persone che si sentono profondamente a disagio nel mondo in cui abitiamo adesso, nonostante tutti gli indicatori dominanti che crescono, mi sembra ragionevole, data la relativa instabilità delle prove di questo progresso e la [imprevedibilità] che la sovrasta. Tutto è veramente fragile”.
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Johan Norberg – che ha pubblicato il suo libro, Progress, due mesi prima delle elezioni presidenziali statunitensi – ha atteso il risultato del voto in un mattino nebbioso di Stoccolma mentre partecipava ad una festa organizzata dall’ambasciata americana. Una volta diventata certa la vittoria di Trump, l’atmosfera, da un brontolio allarmato, si è trasformata in un’inorridita incredulità. Ha ricordato Norberg: “Eravamo tutti Svedesi che lavorano nel mondo dei media, in politica, nel settore finanziario e penso che tra noi sarebbe stato difficile trovare una sola persona che sperava vincesse Trump, così l’atmosfera si stava drammaticamente facendo pesante. E inoltre, non avevano alcool, cosa che non aiutava, perché tutti dicevano: abbiamo bisogno di qualcosa di forte qui! Ma loro avevano impostato il tutto più come una colazione. Penso che gli Americani non capiscano davvero gli Svedesi”.
I picchi populistici degli ultimi due anni negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – che hanno alimentato l’ascesa di Trump, il voto sulla Brexit e l’imprevisto sostegno per Bernie Sanders e Jeremy Corbyn – costituiscono un problema complicato per i Nuovi Ottimisti. Da un lato, è facile interpretare la rabbia verso l’establishment politico come un errore nella percezione di quanto bene le cose stanno andando, o come una reazione legittima ai reali, ma localizzati e temporanei incidenti di percorso, che non necessariamente sono altri motivi per essere pessimisti. Dall’altro lato, è piuttosto curioso interpretare questi flussi politici solo come risposte – giuste o sbagliate – alla situazione reale, poiché ne fanno parte. Anche se pensiamo che i sostenitori di Trump sbaglino nel percepire negativamente la loro situazione, questa percezione è abbastanza reale; hanno davvero scelto Trump, con tutto il suo potenziale di destabilizzazione. I Nuovi Ottimisti, afferma David Runciman, pensano alla politica come nient’altro che ad un fastidio, perché a loro parere “le forze che guidano il progresso non sono politiche, ma quelle che conducono al fallimento lo sono”. Ad un certo punto quindi, non è più importante capire perché ansia e pessimismo si siano diffusi ma semplicemente il fatto che lo abbiano fatto.
Norberg non è un sostenitore di Trump e il risultato delle elezioni potrebbe sembrare una battuta d’arresto ad un autore che promuove un libro che vede completamente roseo il più recente futuro dell’umanità. Nel suo testo fa notare che il progresso non è inevitabile: “C’è un rischio reale di una ripercussione nativista”, scrive. “Quando non vediamo i progressi che abbiamo fatto, cominciamo a cercare un capro espiatorio per i problemi rimanenti”. Ma è nella natura del Nuovo Ottimismo che gli sviluppi negativi possano essere alchimizzati in motivi per essere felici e quando ne abbiamo parlato con lui, Norberg ha avuto una visione ottimista anche delle elezioni statunitensi.
“Penso che in un paio di anni, considereremo la vittoria di Trump una cosa fantastica. Perché se avesse perso e Hillary vinto, lei sarebbe stata il presidente più odiato dei tempi moderni e Trump e Bannon avrebbero costruito un impero dei media della destra alternativa per creare una valanga di odio. E poi Trump potrebbe rivelarsi un candidato più disciplinato di quello che avremmo potuto avere in futuro: un vero e proprio fascista, piuttosto che qualcuno che lo impersonifichi… Trump può rivelarsi una persona incompetente ed egocentrica che rovina il marchio populista degli Stati Uniti”. Questo tipo di argomentazione controfattuale ha il difetto di non essere falsificabile e comunque è molto lontana da una semplice posizione di positività sulla direzione in cui il mondo si muove. Ma forse c’è una verità veramente indiscutibile su cui i Nuovi Ottimisti e le persone più pessimiste possono concordare: che, qualunque cosa succeda, le cose potrebbero, in linea di principio, sempre essere peggiori.
traduzione di Alessia Boragine