Utilizzare ciò che non serve per ciò che serve. Si può sintetizzare così il principio guida dell’economia cosiddetta “circolare” o “closed loop economy”: un modello di sviluppo che ambisce a una riduzione significativa dei prodotti di scarto, in cui i beni mantengono il loro valore aggiunto il più a lungo possibile e sono pensati per essere riutilizzati alla fine del loro ciclo di vita; e in cui i rifiuti sono ridotti al minimo. Un modello definito “circolare” perché gli scarti sono reimmessi all’inizio del ciclo economico, anziché essere gettati via come avviene nella logica lineare del “prendi, produci, usa e getta”.
La spinta dei governi – e in particolare dell’Unione europea, che ha adottato uno specifico pacchetto di misure normative in materia – verso l’obiettivo della “zero waste economy” sta incoraggiando l’adozione di pratiche maggiormente sostenibili da parte delle imprese e la crescita di studi e innovazioni nell’ambito delle tecnologie per lo sfruttamento della materia. L’economia circolare risponde infatti all’obiettivo primario di riutilizzare quello che normalmente sarebbe considerato materiale da gettare: lo scopo è soprattutto quello di far fronte al consumo crescente delle risorse naturali scarse, nonostante la nostra capacità di efficienza nel loro sfruttamento stia crescendo.
Ma non si tratta soltanto di sensibilità verso le sofferenze della Terra. La riduzione degli scarti non solo ha benefici per l’ambiente, poiché riduce le esternalità negative, ma risponde anche e soprattutto a una logica di convenienza e di diminuzione dei costi di produzione: ottiene ricchezza da beni poveri, taglia i costi di smaltimento, riduce la spesa in materie prime. Senza considerare le ricadute positive che questo trend può avere per l’innovazione tecnologica, la nascita di nuovi posti di lavoro e la competitività delle imprese. La Commissione Ue, nella Comunicazione “Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti” del 2014, ha stimato che un uso più efficiente delle risorse potrebbe ridurre il fabbisogno di fattori produttivi in Europa del 17-24% entro il 2030, con risparmi per l’industria di circa 630 miliardi l’anno. A livello globale si calcola che l’economia circolare potrebbe portare a una crescita di 4.500 miliardi di dollari nei prossimi 14 anni.
Ma cosa significa, concretamente, reimmettere i prodotti di scarto nel ciclo economico? Per fare un esempio, dal “pastazzo” derivante dalla spremitura delle arance, difficile da smaltire, grazie all’idea di due giovani siciliane viene prodotta l’Orange Fiber, una fibra tessile simile alla seta che nasce dalla lavorazione delle bucce. Gli uomini della cartiera Favini di Rossano Veneto (Vicenza) sono stati dei precursori nel settore: già negli anni ’90, quando nessuno ancora parlava di economia circolare, hanno cominciato a sviluppare processi per ottenere la carta da prodotti naturali di scarto alternativi al legname, come le alghe raccolte nella laguna di Venezia. Oggi realizzano le confezioni della pasta Barilla con carta ottenuta per il 20% della sua composizione dalla crusca residuale dalla lavorazione del grano; e creano gli shopper per le boutique di Louis Vuitton con i ritagli tessili che avanzano dalla produzione degli abiti.
Si tratta solo di un paio di esempi delle storie di economia circolare che sono state raccolte in un nuovo atlante, pubblicato online il 5 dicembre, realizzato dal Centro di documentazione sui conflitti ambientali (Cdca) assieme a Ecodom (il principale consorzio italiano per il recupero dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche): una piattaforma web che mappa le storie virtuose in giro per tutta la penisola. È uno strumento di documentazione che aiuta a mettere in rete le buone pratiche, i progetti, le idee, i brevetti e aumentare così le potenziali sinergie per l’economia italiana. Una vetrina di storie positive, di proposte piuttosto che di denunce, che denota un cambio di approccio nella narrazione del rapporto tra impresa italiana e realtà ambientale: “Dopo dieci anni in cui abbiamo mappato i conflitti, siamo stanchi di parlare solo delle conseguenze negative del modello di sviluppo, e abbiamo deciso di dare visibilità alle realtà positive che danno risposte concrete ai nuovi bisogni”, ha detto la cofondatrice del Cdca, Laura Greco, presentando il progetto.
L’atlante racconta un’Italia di realtà grandi e piccole in fermento innovativo, diversa da quella che emerge dalla rappresentazione mainstream. E’ soprattutto questo il suo scopo, assieme quello di far riflettere non solo sui risultati, ma anche sulla fatica, l’impegno e gli ostacoli a cui spesso deve andare incontro chi si impegna per mettere sul mercato idee nuove che rompono gli schemi. Idee sempre più necessarie, visto che in Italia i rifiuti valgono ben 10 miliardi l’anno, ma solo un miliardo, secondo il Waste Strategy Annual Report 2017, entra nel circuito dell’economia circolare.
Tramite questo atlante, navigando tra regioni e categorie, gli utenti possono consultare le schede descrittive delle singole realtà mappate. Al primo posto c’è la Lombardia con il 23% di realtà attive sul totale, seguita da Lazio (15,9%), Toscana (12,7%), Emilia Romagna (7%) e Veneto (7%). La circolarità di ogni esperienza è valutata attraverso una serie di indicatori che tengono conto di tutte le fasi del processo produttivo: dalla scelta delle materie prime alla progettazione, dall’efficienza energetica alla logistica, dalla gestione degli scarti alla creazione di valore sociale condiviso, dalla valorizzazione territoriale all’analisi dell’intera filiera. La piattaforma è in continuo aggiornamento: nuove storie verranno scovate da un’equipe di ricerca, che allo stesso tempo valuterà esperienze virtuose segnalate dagli utenti o dalle stesse imprese che fanno economia circolare.