Da tempo ci si interroga sul rapporto tra social media, polarizzazione e disinformazione politica. Una delle ultime relazioni sul tema in ordine di tempo è quella preparata da studiosi del calibro di Joshua A. Tucker, Andrew Guess, Pablo Barberá, Cristian Vaccari, Alexandra Siegel, Sergey Sanovich, Denis Stukal e Brendan Nyhan per la Hewlett Foundation. Il loro paper fa il punto su uno degli argomenti più dibattuti per scoprire quali tasselli mancano al complesso puzzle. Di solito si studia un fenomeno per definirlo, qui invece si prova a fare un elenco delle lacune ancora presenti e degli aspetti più controversi. Invece di riassumere ciò che sappiamo di disinformazione, social media e opinioni polarizzate, sarebbe più corretto dire che i ricercatori hanno provato a capire cosa non sappiamo ancora.
In effetti non è semplice nemmeno definire i fenomeni oggetto di studio. Il termine disinformazione, ad esempio, individua una categoria che al proprio interno comprende non solo le famigerate fake news, ma anche le notizie non confermate in via ufficiale e ancora le informazioni inesatte divulgate in maniera più o meno intenzionale, infine le notizie estremamente partigiane oppure quelle che trattano una sola parte politica in positivo o in negativo.
Le sezioni del report per la Hewlett Foundation sono sei. La prima riguarda le conversazioni politiche, la seconda le conseguenze della disinformazione su coloro che ne sono esposti, la terza si occupa di quelli che producono disinformazione, la quarta le strategie messe in atto per divulgare notizie inesatte, la quinta i contenuti online e la polarizzazione, la sesta il rapporto tra la disinformazione volta a ingannare, la polarizzazione e la democrazia.
Su NiemanLab, Laura Hazard Owen sottolinea come gli autori dello studio abbiano omesso qualsiasi collegamento tra l’uso dei social e la qualità della democrazia, dal momento che i primi non sono democratici o antidemocratici in maniera intrinseca. Si sottolinea inoltre quanto sia complesso esaminare i fenomeni in questione. Basti pensare che non vi è consenso unanime neanche su cosa si intenda per echo chamber o per conversazione politica.Spesso si parla di temi che non si sa se classificare come politici o meno, e le interazioni si sviluppano in gruppi nati con altri intenti, come riunire coloro che svolgono la medesima professione.
Sono state condotte diverse indagini per capire se l’esposizione a disinformazione sui social media possa incidere sulle opinioni politiche e i risultati sono in contrasto proprio perché non è stata usata la medesima definizione di disinformazione e polarizzazione. Gran parte dei dati inoltre, sono stati estrapolati dalle interazioni su Twitter ma la maggioranza degli utenti usa Facebook. Il report della Hewlett Foundation non mostra solo le lacune e gli spazi bianchi da riempire ma anche una serie di evidenze empiriche.
Scopriamo allora che le conversazioni politiche avvengono di solito tra persone che hanno dei legami, come parenti o amici. La teoria vuole che, complici gli algoritmi, ci si confronti con utenti dalle idee analoghe alle proprie e si leggano contenuti in linea con la propria visione del mondo rafforzando ulteriormente le convinzioni iniziali di ciascuno. I dati tuttavia, suggeriscono altro. Sul Web non troviamo solo la bolla con utenti e contenuti affini a noi, anzi la probabilità di essere esposti a disaccordo sul tema politico è molto alto sui social media (come hanno riscontrato Bakshy ed altri nel 2015 e Duggan e Smith nel 2017). Inoltre, la cattiva informazione avrebbe effetti limitati sui livelli di competenza politica dei cittadini (Allcott e Gentzkow, 2017).
Un discorso a parte merita poi la polarizzazione. In base alle ricerche di Boxell e colleghi, svolte lo scorso anno, l’accesso ad Internet e l’uso dei social media non sarebbe correlato ad un suo aumento. Il report, nel riassumere le principali ricerche svolte, fa notare che i messaggi che enfatizzano i conflitti tra i partiti tendono a favorire la polarizzazione politica, mentre quelli relativi a contrasti all’interno dei partiti no. Un ruolo decisivo è svolto anche dagli stati emotivi, la rabbia non facilita il riconoscimento di notizie non accurate e ne agevola la condivisione. L’ansia, invece, alimenta un sano scetticismo che spinge l’utente a ricercare fonti attendibili e non contenuti in linea con le proprie idee. “Io so di non sapere” di socratica memoria potrebbe dunque adattarsi allo spirito dei ricercatori che provano a riempire gli spazi lasciati vuoti da carenza di dati, mancanza di accordo tra definizioni e inevitabili limiti. Nel chiaroscuro della ricerca, il monito che possiamo trarne pare essere sempre il medesimo: non lasciarsi suggestionare da tendenze definite in via torica che magari il tempo potrebbe smentire sul piano empirico.
di Giusy Russo
Quali lacune ancora presentano e quali sono gli aspetti più controversi dei social network. Lo studio della Hewlett Foundation