Ha affascinato critica e pubblico, diventando un cult in tre sole stagioni. Ora che Black Mirror torna con sei nuovi episodi (su Netflix dal 29 dicembre), la sua fama di serie inquietante – in grado di dare corpo alle nostre paure per le derive a cui porterà l’eccessiva pervasività della tecnica – suscita attese e interrogativi nuovi. Dal 2011, quando venne creata dal giornalista, produttore e sceneggiatore britannico Charlie Brooker, Black Mirror si è evoluta in diversi sensi, passando dall’approccio tendenzialmente didascalico degli inizi a una narrazione più complessa e, a tratti, più consolatoria nei suoi contenuti. Spesso si è detto che la serie tv ha la capacità di saper anticipare il futuro (e i suoi possibili disastri). Ma è davvero così?
Se lo è chiesto, con un saggio dato alle stampe alle soglie della quarta stagione (Black Mirror – Memorie dal futuro, Edizioni Estemporanee), Damiano Garofalo, ricercatore in storia del cinema e della televisione presso l’università Cattolica di Milano. La risposta cui è arrivato, in estrema sintesi, è che la serie è uno dei prodotti culturali più strettamente legati alla contemporaneità tra quelli usciti negli ultimi anni; e che in fondo anche la lettura che ne è stata comunemente data sembra non del tutto centrata, o comunque soltanto parziale: “La serie non vuole prefigurare un mondo distopico in cui saremo tutti passivamente spacciati – spiega l’autore – ma un presente parallelo al nostro, che risulta ancora dominato dall’uomo. Il tema non è la deriva della tecnologia in quanto tale, ma gli esiti sull’uomo di un’eccessiva delega ai dispositivi”.
L’impressione che si ottiene da questa prospettiva è che gli episodi di Black Mirror, più che profezie, propongano un’analisi critica del presente. Gli “incubi” narrati, non a caso, sembrano molto vicini nel tempo e del tutto verosimili. Le singole storie (ciascuna un breve “film” autonomo, visto che non ci sono personaggi ricorrenti e trame a puntate, e anche i generi narrativi vengono scavalcati di volta in volta) si legano a conflitti e a crisi dell’oggi, di cui ciascuno può avere esperienza. È abbastanza facile, ad esempio, associare l’idea del controllo di quel che c’è nel nostro cervello (tema degli episodi Crocodile nella nuova stagione, o The entire history of you della prima) al data mining; e gli esempi potrebbero continuare, dalle evoluzioni della realtà aumentata ai robot guardiani.
Gli eventi narrati sono, a ben vedere, esasperazioni ed estremizzazioni futuribili di tendenze già in atto, o comunque in nuce. Il malessere che suggeriscono sembra però funzionale a invitare lo spettatore a non vivere passivamente i cambiamenti che stanno plasmando la sfera pubblica e le vite private, ma ad essere un fruitore consapevole e meno passivo dei nuovi mezzi, più razionale e meno sprovvisto. Avvertito, e dunque in realtà non impaurito.
In questo senso vanno una serie di dichiarazioni recentemente rese dal padre della serie, forse in maniera un po’ strumentale, sottolinea Garofalo, visto che è stato “a partire dalla terza stagione, cioè dall’ingresso su Netflix, che Brooker è diventato un inguaribile ottimista, superando l’immagine del profeta che annunciava la fine del mondo”.
(Netflix)
In un’intervista a NME.com, l’autore di Black Mirror aveva detto che “il problema non è la tecnologia, siamo noi”; e poi, a Panorama (n. del 14 dicembre, p. 114): “Dobbiamo ancora adattarci ai cambiamenti che (la tecnologia) scatena, arrivare a impararne le regole. Penso che la prossima generazione sarà meglio preparata della nostra”.
L’intento di Black Mirror, secondo le parole del suo autore, sembra quindi quello di ricordare che esiste anche una capacità dell’uomo di dirigere i cambiamenti e di non esserne necessariamente succube. Certo, salvo rarissime eccezioni, gli episodi non regalano il sollievo del lieto fine, in linea con un certo approccio narrativo che, come ha scritto il New Yorker, sta trovando la sua “età d’oro” in un clima politico e sociale come quello odierno, avaro di positività condivisa. Però rimane il fatto che “ciò che muove i singoli episodi ha una prospettiva profondamente antropocentrica”, dice Garofalo. “Se ci soffermiamo ad esempio sui vari tentativi di profanazione dei sistemi di controllo tecnologici, ci rendiamo conto come ci sia sempre una piccola speranza di sovvertire l’ordine prestabilito attraverso la scelta, il libero arbitrio, la natura umana”.
Nei prossimi due anni verrà pubblicata una collana di libri ispirati dalla serie. Sempre a Panorama Brooker ha spiegato che la scelta è dettata dalla necessità di “drammatizzare i conflitti interiori dei personaggi”. Il dato umano, oltre a quello tecnologico (di cui parrebbe l’opposto) è dunque centrale. Non è un caso che poi Brooker abbia detto a Wired che Black Mirror non è “anti-tecnologica” perché “nelle nostre storie la tecnologia è spesso utilizzata malamente da una persona”. La produttrice Annabel Jones ha specificato alla stessa rivista che “la tecnologia non è mai il cattivo nella serie”.
C’è, in questo senso, una tensione pedagogica tra la fiction e i suoi spettatori. Black Mirror, in fondo, come un novello mito di Icaro, vuole parlare della capacità dell’uomo di innovare, di sbagliare, e quindi di apprendere: “Brooker ha trovato un tema perfetto per una serie antologica da distribuire nell’era della streaming culture, riducendo un piano ‘alto’ di analisi teorica sui media in riflessioni accessibili al grande pubblico. Il suo mondo può essere scambiato – conclude Garofalo – con una sorta di realtà virtuale in cui, abitando attivamente altri mondi, dovremmo poi imparare a comportarci meglio nel nostro.”
Il creatore Charlie Brooker: “il problema non è la tecnologia, siamo noi, dobbiamo ancora adattarci ai cambiamenti”