C’è un che di spericolato a scrivere sulle prospettive dell’Italia nell’economia internazionale a due settimane dalle elezioni politiche, sapendo che tuttavia questo pezzo sarà pubblicato dopo le elezioni. Tuttavia serve anche a ricordarsi una cosa che ci ha insegnato David Runciman nella sua storia delle tante crisi della democrazia del ‘900, The Confidence Trap (Princeton University Press 2013).
I sistemi democratici soffrono di una costante fibrillazione dovuta alle polemiche quotidiane, agli scandali e scandaletti, talvolta a rivolgimenti politici, ma nella sostanza sono estremamente resilienti e stabili anche alle crisi vere, di cui normalmente non si accorgono se non a posteriori. Al contrario, i sistemi autocratici sono immuni dalle fibrillazioni, ma basta una crisi per farli terminare. Questa introduzione non per dire che le elezioni non avranno conseguenze, anche economiche, ma che la forza dei nostri sistemi democratici è proprio quella di stabilire traiettorie di periodo più lungo, di consentire ai loro cittadini di imbarcarsi in imprese, investimenti e progetti, con la ragionevole certezza di poterli portare avanti.
Questo naturalmente non vale sempre e per tutti, pensate ai poveri investitori in agricoltura OGM che in Italia hanno avuto la vita impossibile. Ma si tratta, comunque, di piccoli casi isolati. Infatti, proprio grazie all’apertura dei mercati, la democrazia ha aumentato la resilienza dei propri cittadini (pensate a quelli che… se vince Mr X vado all’estero: frase impossibile senza democrazia). Dunque, sono abbastanza fiducioso nella democrazia da pensare che qualunque cosa sia successa all’elezioni, in questo momento, oggi ma anche dopodomani, l’economia italiana sembra indirizzata verso qualcosa di più che una semplice ripresa. Certo, il PIL sale, l’occupazione sale e la disoccupazione diminuisce. Soprattutto a nord di Roma (ma anche a sud), invece di leggere le fredde e noiose statistiche possiamo indugiare su moltissime storie positive, di idee che crescono, nuovi centri che aprono, persino giovani che vengono a studiare e lavorare in Italia, anziché il contrario.
Ma questi dati dell’oggi vanno inquadrati dentro alcuni fenomeni più ampi. A parte i dati congiunturali: crescono molto le fusioni e acquisizioni, aziende medie che si uniscono per farne una grande; gli investimenti esteri, che scommettono sui nuovi mercati che le nostre aziende possono conquistare, raggiungono livelli record. Gli stessi provvedimenti, a volte vilipesi, dell’alternanza scuola-lavoro, del rilancio della alta formazione professionale, avranno un effetto positivo sulla produttività non domani, ma tra qualche anno, così come tra qualche anno le fusioni e gli investimenti esteri potranno essere misurati in aumento di PIL e posti di lavoro. In altre parole, la mia tesi è che i dati positivi di questi due anni sono l’inizio di un ciclo.
In aggiunta a questo, bisogna rilevare che questi fenomeni sono trainati da trend globali. Si parla tanto del merito del QE di Draghi per superare la crisi, e dei timori che derivano dal suo inevitabile affievolirsi. Ma i macro fenomeni internazionali che ci stanno influenzando sono di scala maggiore della benemerita azione di questi anni della BCE. Nel mondo continua a crescere esponenzialmente la classe media, economie emergenti come la Cina stanno lasciando il posto a nuove come il Vietnam nel ruolo di produttori a basso costo, ed entrando in fasi più evolute: economie di consumo, e la Cina nella sua parte già benestante è grande quasi come l’intera Unione Europea. Per questa ragione: aumentano i turisti (e aumenteranno), aumenta la domanda per il Made in Italy dei beni di consumo (e aumenterà), aumenta la richiesta per le alte tecnologie meccaniche e farmaceutiche di cui siamo campioni (e aumenterà), aumenta lo spazio per i nostri ricercatori, artisti e persino architetti e restauratori – notoriamente in numero maggiore rispetto alle capacità di assorbimento della nostra economia.
Ora: fino a qui sembra un ritratto quasi panglossiano del nostro paese, per quanto basato su osservazioni e statistiche piuttosto oggettive e a mio giudizio quindi realistico. Il problema è che se domani, per esempio, davvero venissero introdotti i famosi dazi di Salvini, di cui si è parlato in campagna elettorale, il ragionamento cadrebbe. Io penso che tale evento sia molto improbabile anche se ieri la Lega avesse conquistato il 50%: molte forze del paese riuscirebbero a impedirlo. Ma per quanto? Infatti, quella stessa frase sui dazi sarebbe stata impensabile per la Lega fino a pochi anni fa. Ho scelto questo esempio per sottolineare l’evidente divorzio tra la politica e l’economia di cui si è parlato spesso a sproposito per vent’anni fino a quando poi è successo.
Negli anni ‘90 e 2000 la condiscendenza della politica ai macro fenomeni economici era anche spia di un sostanziale consenso che essi producevano. Certo, pochi conoscevano il Multi-Fibre Agreement, ma a dominare era un “consenso permissivo”, fino a che le cose andavano bene, si lasciava che i tecnici si preoccupassero dei puntini sulle i. Al contrario, la profondità delle fratture sociali e la durezza della grande depressione dello scorso decennio hanno fatto crollare tale consenso, nutrito la politica apparentemente irrazionale che ci circonda, e aperto un grande rischio per la parte più avanzata del mondo.
Pensate alla generazione nata negli anni ’80, colpita duramente dalla crisi negli anni della propria giovane età adulta, con conseguenze individuali che rimarranno per tutta la vita e con uno strascico di sfiducia in ogni forma di istituzione – la partita era truccata! – che viene naturalmente sfruttata da “imprenditori politici” di ogni colorazione, da Grillo a Trump e vi evito la lista che conoscete. Colmare questa frattura avrà bisogno di un riformismo di livello e creatività molto superiore a quanto finora visto.
Non si tratta semplicemente di ideare qualche politica per mitigare la povertà, come il pur condivisibile salario minimo. Si tratta di identificare tutti i nuovi rischi che la nuova fase della globalizzazione porta con sé, e dar loro una risposta strutturale. Quali rischi? Il rischio di finire per lungo tempo a fare un lavoro precario (rischio di un giovane su 4, altissimo); rischio che il proprio quartiere sia desertificato da centri commerciali, invecchiamento, e immigrazione senza integrazione; rischio di malattia dei propri cari anziani o di maggiore età di un figlio disabile che a un certo punto non avrà più i genitori. È una lista parziale, che vale per l’Italia, ma che vale uguale uguale per gli altri paesi Europei. Abbiamo scoperto in questi anni che se non acceleriamo le forme di protezione rischiamo di far deragliare molte delle conquiste delle generazioni precedenti – basti la desolazione del panorama inglese di questi anni.
Questo ragionamento non significa semplicemente più stato, ricordate che il mix pubblico-privato per lo stato sociale è sempre stato molto diverso tra i vari paesi, pur offrendo risposte sostanzialmente uguali a rischi uguali (sanità, scuola, pensioni: le assicurazioni dell’età industriale pre-global). Allora, emergono due condizioni per approfittare fino in fondo dei macrotrend favorevoli per l’Italia. Il primo è un riformismo operoso che eviti, per esempio, che i turisti in crescita inevitabile devastino i centri storici come sta accadendo a Roma a causa dell’incompetenza totale di chi dovrebbe regolare e tramutare in valore un fenomeno potente.
Questa incompetenza a questo punto rallenta, ma non inficia l’effetto dei trend (le micro-strutture ricettive sono la prima voce di nuove aziende a Roma!). La seconda, e molto più importante per la tenuta nel medio periodo, è che la migliore creatività della politica – in Italia e in Europa – torni urgentemente al proprio ruolo.
di Marco Simoni
(articolo pubblicato sul numero di marzo de Il Mensile di Ottimisti & Razionali)
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